A cura di Beatrice Schivo
Contenuto in corso di aggiornamento.
La condizione degli schiavi preoccupava politicamente e amministrativamente i governi da ben prima del Seicento, secolo di nostro interesse. La normativa che regola la vita e la presenza dei captivi nel Regno tende a mostrare una concezione negativa di questi individui. Sospetti, paure, restrizioni, discriminazione, emarginazione e maltrattamenti emergono dalle disposizioni di legge.
Già nel 1346-1347 i Consellers, gli amministratori civici di Cagliari, nelle ordinanze emanate per gestire la condotta civile nella città comprendevano alcune prescrizioni in merito agli schiavi e le pene comminate in caso di infrazione. Queste, spesso riprese e integrate nel tempo, sarebbero state la base per le successive raccolte di norme. Gli schiavi non potevano girare per la città alla sera senza portare i ferri alle gambe e senza un guardiano; non potevano essere aiutati a fuggire; nessuno poteva comprare da loro mercanzie o prestar loro alcun oggetto o denaro.
Un secondo codice di norme compilato ancora dai Consiglieri e aggiornato lungo quasi due secoli, dal 1422 e fino al 1603, riprendeva queste indicazioni e ne aggiungeva di nuove. Infatti, in virtù del costante pericolo di fuga, si regolava la gestione delle imbarcazioni nel porto di Cagliari da parte dei capitani e dei proprietari, i quali venivano ritenuti responsabili di eventuali fughe realizzate con le loro barche. Si leggono inoltre le prime norme sui rapporti carnali tra schiave e loro padroni o cittadini di Cagliari e sulla gestione dei figli nati da questi.
Nel 1471 si imponeva l’impossibilità per gli ebrei e i mori di rivestire incarichi civici nella città. Tra il 1488 e il 1491 i Veguers di Cagliari riproponevano, su volontà dei Consiglieri civici, nelle loro cridas, prescrizioni sugli schiavi che riprendevano quelle del secolo precedente in merito alla loro circolazione in città alla sera, alla compravendita di beni da loro e ancora in merito alla gestione delle barche. Si aggiungevano le regole per il comportamento dei locandieri rispetto agli schiavi: per evitare che si ubriacassero, non sarebbero dovuti per nessuna ragione essere accolti nelle locande della città, né di notte né di giorno.
Nel 1514 il viceré don Fernando Giron de Rebolledo emanava un avviso specificamente incentrato sui mori. Si tratta della Crida de moros y roba de aquells presos e contiene un appello alla popolazione affinché ognuno si mobilitasse contro gli infedeli che arrivavano nel Regno seminando distruzione, catturando e saccheggiando.
Al 1515 risale un’altra ordinanza dedicata in particolare agli schiavi: la Crida dels catius. Nella crida si susseguono le regole che gli schiavi, i loro padroni ma anche altre categorie di cittadini (come i proprietari di barche o i tavernieri) dovevano seguire. A queste erano affiancate le pene che sarebbero state comminate in caso di disobbedienza. Affinché le ordinanze venissero rispettate, veniva istituito un ufficio apposito: il mestre de guayta, un guardiano degli schiavi. Il suo compito consisteva nel sorvegliare i captivi evitandone comportamenti delittuosi e, in caso di fuga, cercarli, trovarli e riconsegnarli ai padroni a proprie spese. Egli doveva ricevere obbedienza e rispetto, e i padroni di schiavi dovevano versare per il suo stipendio due rate annuali calcolate in base al numero e alla “tipologia” di schiavi posseduti. Il primo mestre de guayta nominato è Antoni Xarra. Successivamente verranno pubblicati altri ordini vicereali sui compiti di questo ufficiale, molto ben definiti e vari. Non mancano i reclami all'operato di quest'ultimo: nel 1550 il re invia una lettera di lagnanze sulla condotta - fatta di abusi e aggravi - del mestre de guayta Nicolau Pasqual, eletto appena tre anni prima, nel 1547.
L'ordinanza in cui, tra l'altro, veniva eletto Pasqual, presenta un contenuto simile ma con lievi modifiche e nuove prescrizioni rispetto alla precedente. Le due raccolte di norme erano sostanzialmente concordi, sebbene nella seconda si possa notare un aumento dei divieti ma allo stesso tempo una diminuzione delle pene.
Un ulteriore divieto alla condotta degli schiavi si trova in un avviso del Mostazzaffo di Cagliari del 1548 che ordinava l'impossibilità per chi fosse stato o fosse schiavo di vendere vino, olio e altri generi alimentari, sotto la pena di 25 lire. Venivano esentati dal capitolo gli schiavi sposati e che avevano figli.
A seguire si aggiungono – con alcune novità - nuove ordinanze in diversi altri anni del XVI secolo: nel 1558, 1562, 1590. In queste ordinanze si aggiunge una norma che prevede l’impossibilità per moros affrancati o liberti, sposati o celibi/nubili, di dimorare in abitazioni nella città e castello di Cagliari.
Alla fine del Cinquecento e all’inizio del secolo successivo ancora si rinnovarono i bandi e gli annunci riferiti agli schiavi, ritenendoli un problema per l’ordine pubblico e il quieto vivere nella città. I regolamenti erano riferiti agli schiavi uomini: mai alle donne. Queste ultime, infatti, non dovevano essere tanto un problema di ordine pubblico, quanto un problema “etico” e più privato, per via dei rapporti di varia natura che potevano instaurarsi nell’ambiente domestico con i padroni o membri della loro famiglia.
L'arcivescovo di Cagliari Alonso Lasso Sedeño, sostituto del viceré nel periodo di vacanza della carica, nel 1597 pubblicava un bando in merito al cattivo trattamento riservato agli schiavi. Il bando riferisce che molte persone li apostrofavano con parole ingiuriose, li colpivano con armi e pugni, indifferentemente se i captivi fossero mori o convertiti; questi ultimi venivano chiamati perros, cani. Secondo l’arcivescovo questi trattamenti si ripercuotevano negativamente sulla permanenza nella via della fede cristiana degli schiavi convertiti: sentendosi in pericolo e vessati, questi non partecipavano alle pratiche religiose, allontanandosi dalla fede, e i mori rinunciavano del tutto a convertirsi. Il monito, dunque, è quello di fermare immediatamente ogni maltrattamento fisico o verbale nei confronti di moros e cristiani. L’unica eccezione viene indicata per i padroni, i quali potevano punire i propri schiavi solamente quando lo meritavano, con moderazione e senza servirsi di interposta persona ma facendolo personalmente.
L’anno successivo, il 7 luglio 1598, lo stesso Lasso Sedeño emanava ancora una nuova grida che riprendeva quelle passate e ne chiarificava alcuni passaggi. Le prescrizioni si riferivano solamente agli schiavi ancora musulmani, moros, e non a quelli convertiti e tornavano a proibire che essi girassero di notte liberamente per Castello e per le appendici di Cagliari in quanto avrebbero potuto commettere furti e altri delitti o perfino fuggire: dopo il suono della preghiera della notte gli schiavi di Castello dovevano rientrare nel Castello e quelli delle tre appendici non potevano lasciare la propria abitazione. Questo a eccezione di trovarsi in compagnia del padrone e sotto la pena di cento frustate per la prima trasgressione, 200 per la seconda ed essere mandati alla Galera nella squadra del re, perpetuamente, per la terza. Per la stessa ragione gli schiavi non potevano andare in giro in gruppo ma al massimo in due, con eccezione di quando si recavano alle fontane per compiere servizio al proprio padrone portandogli l’acqua. In caso di contravvenzione alla norma sarebbero stati puniti con 100 frustate e la condanna ai servizi per la costruzione di opere regie. Ancora l’ordinanza dell’arcivescovo sottolinea, nell’ottica di prevenire le fughe degli schiavi dal Regno, l’obbligo dei padroni di imbarcazioni di tenerle ben legate e custodite e senza armi o utensili da navigazione a bordo. La pena, in caso di mancato rispetto, sarebbe stata la confisca della barca e l’esilio perpetuo per i padroni delle barche e, per gli schiavi trovati a fuggire con le stesse, la condanna perpetua al remo nelle galere di Sua Maestà. Ancora veniva proibito agli schiavi mori di portare con sé armi poiché erano soliti affrontarsi in risse e aggredire altri schiavi o perfino cristiani. Si ripropone la norma già più volte emanata per la quale nessuno schiavi, che fosse musulmano o convertito, potesse recarsi nelle taverne e nessun taverniere, dal canto suo, potesse accoglierli: si voleva impedire che si ubriacassero, omettendo i propri compiti o perpetrando atti delittuosi.
Nel primo ventennio del Seicento era ancora la fuga degli schiavi a essere al centro della riflessione normativa. Nel 1617 il viceré de Erill ordinava che nessuno avesse alcun tipo di rapporto con gli schiavi o li ospitasse o li nutrisse; ai padroni di imbarcazioni ancora si intimava di non imbarcarli. La punizione per qualunque abitante del Regno che avesse trasgredito sarebbe stata due anni nelle galere e per i comandanti e proprietari di barche la morte e la confisca dei beni. Non solo pene severe ma perfino incentivi alla denuncia: il viceré prometteva che, chiunque avesse fornito alle autorità informazioni su schiavi fuggitivi tenuti nascosti o imbarcati o qualunque notizia che avrebbe potuto in qualsiasi modo favorirli o proteggerli, avrebbe ottenuto un terzo dei beni dei trasgressori. Nel pregone il viceré ordinava anche che tutti i moriscos affrancati che vivessero e abitassero nella città di Cagliari si dovessero presentare davanti a lui entro due giorni dalla pubblicazione del pregone stesso, sia uomini che donne. Chi si fosse trovato nel resto del Regno di Sardegna, invece, avrebbe avuto giorni di tempo per fare altrettanto. La pena in caso di mancato rispetto sarebbe stata la galera perpetua per gli uomini e 200 frustate e la confisca dei beni per le donne.
Nel 1619 veniva pubblicata una grida urgente, immediatamente dopo che numerosi schiavi erano fuggiti la notte precedente. Tale grida, oltre a riproporre gli obblighi di sorveglianza e custodia delle barche, inaspriva di gran lunga la pena per chi non avesse denunciato – pur essendone a conoscenza – notizie su schiavi fuggitivi: si prescriveva la pena di morte. Pochi mesi dopo, nella necessità di stabilire maggiore controllo, un altro avviso indicava che i proprietari di barche non sarebbero più stati gli unici responsabili delle fughe ma, insieme a loro, anche le corporazioni di cui facevano parte (San Pietro e San Telmo) e, inoltre, che tutte le barche venissero iscritte a un registro: 200 ducati di multa e l’imputazione della colpa delle fughe sarebbero state le pene comminate in caso di mancato rispetto della norma.
Che questa tipologia di norme si siano ripetute così ricorrentemente dimostra che non ottenessero poi il successo sperato dalle autorità. Gli schiavi, sembra, erano pronti a tutto pur di trovare la libertà e nessuna delle pene minacciate li avrebbe fermati.