Colonia greco-albanese di Piana degli Albanesi Nel 1488 Nicolò Trulenchi, Governatore e Procuratore generale dell’Arcivescovo di Monreale, firmava i capitoli di fondazione di un nuovo insediamento nella pianura situata a sud di Palermo. I coloni erano esuli greco-albanesi fuggiti dalla Morea e dalla Chimarra dopo l’occupazione ottomana dei Balcani e la morte di Giorgio Castriota Scanderbeg.
La fondazione del casale si inseriva all’interno di una più ampia politica di ripopolamento delle campagne siciliane, che nei decenni precedenti si erano svuotate a seguito di guerre ed epidemie. Il territorio in cui sorse Piana degli Albanesi, in particolare, era un’area tradizionalmente a forte vocazione cerealicola e necessitava, a quel tempo, di nuove braccia per far ripartire le coltivazioni e garantire nuove entrate fiscali alla diocesi di Monreale. Il nuovo insediamento soddisfaceva quindi un duplice e reciproco bisogno: quello di asilo per i greco-albanesi e quello di attirare nuova forza-lavoro per l’arcivescovo.
Il nuovo centro, che assunse inizialmente la denominazione di Piana dei Greci – il nome venne cambiato solamente nel 1941 – a causa dell’omologazione tra rito religioso ed etnia compiuta dai siciliani, attirò dopo la caduta di Corone (1532) un sempre maggior numero di coloni dall’Epiro, tanto da far lievitare la popolazione sino allo 5000 anime del 1652. Questi erano attirati dalle vantaggiose capitolazioni sottoscritte dai primi arrivati che prevedevano la possibilità di costruire abitazioni e edifici religiosi, impiantare vigneti, cacciare, far legna e portare liberamente il bestiame al pascolo nel territorio circostante.
Tutte attività in cui gli Arbëreshë si dedicarono alacremente stando alla testimonianza trasmessaci dagli atti notarili dei secoli XV-XVIII giunti sino a noi. Non solo, la licentia populandi garantiva loro anche di auto nominare gli ufficiali dell’amministrazione locale, e di conservare lingua, tradizioni e rito liturgico della terra d’origine. Tutto questo a fronte solamente del pagamento, ogni agosto, di una decima alla Diocesi di Monreale, del rispetto di alcuni obblighi di carattere feudale come il divieto di costruire un mulino, e come già detto della restaurazione della cultura del grano.
Queste condizioni, insieme alla posizione relativamente isolata di Piana degli Albanesi, permisero ai suoi abitanti di conservare la loro specifica identità culturale e rendere la città un punto di riferimento per tutti gli Arbëreshë di Sicilia. Non è un caso quindi che il centro sia conosciuto anche come «Hora», termine albanese traducibile come «il luogo, la città, la casa per eccellenza». Così come non è un caso che nel corso dei secoli siano sorte a Piana degli Albanesi un gran numero di istituzioni religiose ed educative che hanno contribuito a conservare lingua, religione e cultura arbëreshë.
Si pensi, solo per citarne alcune, al Collegio di Maria per giovanette siculo-albanesi, fondato nel 1731 da Antonino Brancato; alla Congregazione dei preti celibi albanesi (1716); all’Oratorio dei padri filippini di rito greco (1716) voluto da padre Giorgio Guzzetta; all’Eparchia istituita nel 1937; al Seminario italo-albanese trasferito da Palermo durante la Seconda guerra mondiale; o ancora al Convitto vescovile pre-seminario (1940).
Colonia greco-albanese di Contessa Entellina L’abitato di Contessa Entellina trae origine dal casale di Contessa, attestato sin dal 1296 e denominato così per via della contessa Eleonora d’Aragona, sua proprietaria sino al 1405. I coloni greco-albanesi, invece, vi si stabilirono quando il casale, ormai abbandonato, e tutto il feudo circostante erano divenuti appannaggio di Alfonso II Cardona. Al 1520 risalgono, infatti, i capitoli di fondazione della colonia che, al pari di Palazzo Adriano e Mezzojuso, fu voluta dal Cadorna per ripopolare con genti nuove i suoi possedimenti afflitti da una grave emorragia demografica. Secondo lo studioso ottocentesco Atanasio Schirò, invece, l’attributo “Entellina” deriva dal fatto che la nuova colonia era posta in prossimità delle rovine di Entella, un’antica città preromana poco distante.
Ai greco-albanesi fu quindi consegnato un gruppo di case diroccato e completamente da ricostruire, cosa che dovette avvenire in brevissimo tempo giacché alla fine del Cinquecento il nuovo abitato registrava già la presenza di circa 700 abitanti, in larga parte arbëreshë ma anche latini.
Secondo le capitolazioni del 1520 tutti i coloni di Contessa Entellina avrebbero dovuto rimettere a coltura i campi circostanti, in cambio avrebbero goduto di agevolazioni o esoneri integrali sui tributi feudali e totale libertà di seguire la liturgia greca in luogo di quella romana. Non solo, fu stabilito anche che molte delle cariche politiche più importanti della comunità sarebbero state di esclusiva gestione degli abitanti stessi, mentre Alfonso II e i suoi successori alla titolarità del feudo si sarebbero riservati solamente la facoltà di nominare il segretario del capitano e il giudice.