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Lettera di maniotti da Zante
Michele Cozifachi Stefanopoli, a nome e per conto dei maniotti rifugiati nell'isola di Zante, scrive ai cugini Michele e Giovanni Stefanopoli, già stanziati a Paomia per chiedere di aiutarli a organizzare la loro migrazione verso la Corsica.
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Lettera dei greci di Minorca a quelli stanziati in Sardegna
I greco-ortodossi dell'appena costituita comunità di Mahon invitano i greci stanziani nell'isola di Sardegna a trasferirsi a Minorca
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Patenti concesse agli ortodossi di Trieste (1751)
Patenti concesse dall'imperatrice Maria Teresa d'Austria ai greci della città di Trieste
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Greci a Zemun
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Colonia greca di Vienna
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Colonia greca di Venezia
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Greci a Varna
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Greci a Vallerano di Murlo
Il piccolo borgo di Vallerano (oggi frazione del comune di Murlo) rientra tra quelli che, negli anni Settanta del Seicento, il Granducato di Toscana cerca di rivitalizzare stanziandovi coloni giunti dalla penisola dil Mani.
La notizia di queste presenze è data da un documento che abbiamo reperito nell'archivio storico della Congregazione di Propaganda Fide, secondo il quale il 20 febbraio 1678 due sacerdoti e sei famiglie mainotte vengono espulsi in seguito a un violento scontro verbale col visitatore apostolico inviato da Roma per promuovere la loro piena conversione al cattolicesimo latino.
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Greci a Val di Perga
Coloni insediati per evitare spopolamento di centro già esistente
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Colonia greca di Trieste
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Greci a Tokaj
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Greci a Tangarog
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Greci a Sulina
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Greci a Sovana
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Sibiu
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Greci a Senigallia
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Greci Sant’Antioco
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Greci a Pola
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Greci a Ponzan
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Greci a Pitigliano
Nel maggio 1676, il monaco domenicano Piero Odorisi, vicario apostolico inviato in Toscana dalla Congregazione di Propaganda Fide per assicurare la conversione dei greco-maniotti alla religione cattolica, si trasferisce nel villaggio di Pitigliano.
Da Pitigliano si reca più volte a Sovana, il centro, oltre a Bibbona, nel quale si è trasferita una quota importante delle famiglie maniotte giunte in Toscana.
Il vicario fa delle predicazioni ai maniotti “e per rappacificarli in certi contrasti e differenze che avevano con un prete loro greco di Cirigo. E ora … son alquanto quietati”.
[Scheda in corso di allestimento]
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Greci a Pisa
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Greci a Pest
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Colonia greca di Paomia
Nel 1663 Demetrio Medici, il figlio Stefano, il nipote Anatasio Medici e un Tommaso Medici aprono un negoziato con la Repubblica di Genova per trattare il trasferimento di circa settecento maniotti nel regno di Corsica.
Le trattative sono segrete e si svolgono contemporaneamente a quelle che, nello stesso anno, gli stessi maniotti intavolano col Granducato di Toscana.
Il negoziato coi genovesi produce accordi che non conoscono attuazione, anche perché i maniotti decidono di tentare la colonizzazione delle Maremme senesi, messe a disposizione dalla Toscana.
Nel 1771 i maniotti riaprono la trattativa con Genova. Gli accordi del 1663 vengono revisionati e riformulati. Ha così inizio la fondazione della colonia di Paomia, che conoscerà nei decenni successivi una notevole fioritura demografica e agricola.
All'inizio degli anni Trenta del Settecento, lo scoppio dei tumulti genovesi impone ai maniotti di scegliere se schierarsi coi ribelli isolani oppure col governo della Superba. La scelta della seconda opzione costa caro ai maniotti: Paomia viene distrutta dai corsi e i coloni sono costretti a rifugiarsi ad Ajaccio.
È l'inizio di una nuova dispersione, che porterà i rappresentanti degli esuli ad aprire nuove trattative per trovare altrove un nuovo inizio. I maniotti trattano con la Minorca Britannica, con la Sardegna sabauda e con la Spagna borbonica.
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Greci a Palermo
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Chimarotti a Paganico
Nel periodo compreso tra il 1580 e il 1581, Ferdinando I avviò una complessa trattativa con un gruppo di esuli greco-albanesi provenienti dalla cittadina portuale e dall'area di Chimara (oggi Himarë).
In un dispaccio datato 16 dicembre 1580, redatto dal prete ortodosso Atanasio Chubach, si legge che "vecchi e giovani di Chimara e tutti gli anziani dell'Albania, piccoli e grandi", si sono dichiarati disponibili a trasferirsi in Toscana. Rimasti privi del loro signore, il signor Schandarbeo, i supplicanti si sono trovati a dover affrontare da soli la lotta contro i Turchi e a subire quotidianamente le aggressioni dei tiranni.
Venuta loro a conoscenza della bontà e della generosità di Vostra Altezza Serenissima, i chimariotti hanno inviato alla corte del granduca il capitano Alexio, il reverendo Angiolino Castro Filacho e il pope Gicho Nicola, affinché potessero esaminare la loro terra.
Gli esiti del recente conflitto tra Venezia e la Sublime Porta avevano spinto i greco-albanesi verso la migrazione, consolidando una disponibilità che era stata già manifestata a Firenze ai tempi del granduca Cosimo I (1519-1574).
Sono circa centotrenta le famiglie disposte a traslocare in Toscana.
Il granduca decide di accoglierle e di impiegarle immediatamente per arrestare lo spopolamento che colpisce le terre un tempo appartenute
alla Repubblica di Siena. Il villaggio semi-abbandonato di Paganico, sito a qualche decina di chilometri da Grosseto, nella piana laddove i
fiumi Ombrone e Lanzo si congiungono, è una destinazione gradita ai chimariotti.
Quando nel 1580 i primi coloni sbarcano in Toscana, raggiungono non solo Paganico, ma anche Saturnia, altro borgo della Maremma grossetana. Si tratta di presenze destinate a dissolversi nel breve torno di qualche anno, lasciando insoddisfatta la fame di uomini dello Stato Toscano, che dunque nel Seicento continuerà a ricercare contadini forestieri.
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Greci a Novi Sad
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Greci a Nikolaev
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Colonia greca a Napoli
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Maniotti a Montauto
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Greci a Miskolc
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Greci a Messina
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Colonia greca di Marsiglia
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Greci a Mariupol
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Colonia greca di Mahon
Nel 1708 l’isola di Minorca viene occupata da una forza alleata guidata dalla Gran Bretagna nell'ambito della Guerra di successione Spagnola. Il passaggio al Regno Unito è ufficializzato dal trattato di Utrecht del 1713 che mette fine al conflitto.
Nel 1722 i nuovi signori dell’isola spostano la capitale da Ciutadella a Mahón che diventa base militare, corsara e commerciale di primo rango nel contesto mediterraneo. La presenza della flotta britannica attiva una domanda di beni e servizi che l’economia di Mahón e dell'intera Minorca non è in grado di soddisfare. Anche per questa ragione le autorità britanniche decidono di aprire Mahón ai mercanti forestieri: vi arrivano sopratutto ebrei, genovesi, greci e persino armeni.
È in questo quadro che a metà Settecento a Mahón prende forma una colonia di mercanti greci. L’insediamento di una comunità in forma stabile implica la costruzione di un luogo di culto. Il 9 dicembre 1743 i greci di Mahón chiedono alle locali autorità cattoliche di essere autorizzati ad aprire un proprio luogo di culto.
Tuttavia, il clero minorchino considera la purezza religiosa un elemento essenziale alla conservazione del cattolicesimo nell'isola.
Marcos Vatica, uno dei leader della colonia greca di Mahón, si reca personalmente in Corsica, dove incontra il sacerdote Giorgio Cassara, appartenente alla colonia greco-maniota di Paomia fondata sull'isola nella seconda metà del Seicento e che nel 1743 attraversa un momento di grave difficoltà.
Genova è informata anche delle mosse dei greci di Minorca. Nel novembre del 1743 il Senato avvisa tutti gli ufficiali di stanza in Corsica dell’imminente arrivo della missione greco-minorchina di Vatica e ordina che le sia impedito di entrare in contatto coi greci di Paomia.
Il divieto colpisce anche il sacerdote Cassara che lascia comunque la Corsica verso Minorca, compiendo così il reato di diserzione. Cassara non ottiene nemmeno l'autorizzazione a sbarcare a Minorca.
A Minorca la situazione sembra sbloccarsi. Davanti al rifiuto delle autorità ecclesiastiche di consentire una chiesa greco-cattolica, il governo britannico, spinto anche da quello russo, autorizza la costruzione di un luogo di culto ortodosso. Nasce così la chiesa di San Nicola, completata nei primi anni Cinquanta.
Allo scoppio della guerra dei Sette Anni, una flotta francese assedia e occupa Minorca: gli inglesi e i forestieri che hanno sostenuto i britannici vengono espulsi dall'isola.
Quando, al termine del conflitto, Minorca torna alla Gran Bretagna, tornano molti dei forestieri che ne erano stati espulsi. La vita della colonia termina con l’occupazione spagnola di Minorca del 19 agosto 1781.
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Lvov (Lemberg)
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Greci a Londra
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Greci ortodossi Livorno
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Greci uniti Livorno
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Greci a Leipzig
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Greci a Kecskemét
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Greci a Jassy
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Greci a Ismail
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Greci a Galatz
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Greci a Constanta
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Colonia greca di Cargese
Nel 1769, per impedire alla colonia maniotta di Corsica di emigrare verso la Spagna, la Francia, di recente entrata in possesso della Corsica, decide di finanziare il ristabilimento della colonia maniotta distrutta negli anni Trenta.
La colonia viene fondata più a sud di Paomia e assume il nome di Cargese.
[Scheda in completamento]
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Greci a Casalappi
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Greci a Campiglia Marittima
Diverse famiglie di greco-maniotti, precedentemente stanziati a Bibbona, si trasferiscono a Campiglia Marittima “ed in altri luoghi” del Granducato di Toscana.
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Greci a Bucharest
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Greci a Brasov
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Greci a Braila
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Greci a Bibbona
A metà del Seicento il villaggio maremmano di Bibbona, nella diocesi di Volterra, rischia di rimanere deserto, perché colpito da un forte processo di spopolamento.
Per queste ragioni negli anni Settanta, il governo granducale vi stanzia numerose famiglie di esuli maniotti, con l'obiettivo di rilanciare il borgo.
Con dispaccio del 21 maggio 1675, il vescovo di Volterra annuncia all'arcivescovo di Edessa, nunzio apostolico a Firenze, che il 12 maggio 1671 un certo numero delle citate famiglie maniotte ha fatto professione di fede cattolica nella chiesa parrocchiale di Santo Hilario a Bibbona.
Altri due sacerdoti maniotti hanno invece giurato nella chiesa di San Rocco sempre a Bibbona in presenza di Francesco Scotti, cerusico di Bibbona che fa loro da interprete.
È l'inizio di una vicenda insediativa che sarà difficile e di breve durata: dopo pochi mesi saranno tanti i coloni che decideranno di lasciare Bibbona per cercare in altre regioni della Toscana e oltre una nuova prospettiva di vita.
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Greci in Asinara
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Greci a Aranjuez
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Colonia greca di Ancona
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San Cristoforo di Montresta
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Montresta. Carta reale di fondazione
Carta reale con cui Carlo Emanuele III re di Sardegna disciplina la fondazione della colonia greco-cattolica di San Cristoforo di Montresta
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Colonia greco-albanese di Piana degli Albanesi
Nel 1488 Nicolò Trulenchi, Governatore e Procuratore generale dell’Arcivescovo di Monreale, firmava i capitoli di fondazione di un nuovo insediamento nella pianura situata a sud di Palermo. I coloni erano esuli greco-albanesi fuggiti dalla Morea e dalla Chimarra dopo l’occupazione ottomana dei Balcani e la morte di Giorgio Castriota Scanderbeg.
La fondazione del casale si inseriva all’interno di una più ampia politica di ripopolamento delle campagne siciliane, che nei decenni precedenti si erano svuotate a seguito di guerre ed epidemie. Il territorio in cui sorse Piana degli Albanesi, in particolare, era un’area tradizionalmente a forte vocazione cerealicola e necessitava, a quel tempo, di nuove braccia per far ripartire le coltivazioni e garantire nuove entrate fiscali alla diocesi di Monreale. Il nuovo insediamento soddisfaceva quindi un duplice e reciproco bisogno: quello di asilo per i greco-albanesi e quello di attirare nuova forza-lavoro per l’arcivescovo.
Il nuovo centro, che assunse inizialmente la denominazione di Piana dei Greci – il nome venne cambiato solamente nel 1941 – a causa dell’omologazione tra rito religioso ed etnia compiuta dai siciliani, attirò dopo la caduta di Corone (1532) un sempre maggior numero di coloni dall’Epiro, tanto da far lievitare la popolazione sino allo 5000 anime del 1652. Questi erano attirati dalle vantaggiose capitolazioni sottoscritte dai primi arrivati che prevedevano la possibilità di costruire abitazioni e edifici religiosi, impiantare vigneti, cacciare, far legna e portare liberamente il bestiame al pascolo nel territorio circostante.
Tutte attività in cui gli Arbëreshë si dedicarono alacremente stando alla testimonianza trasmessaci dagli atti notarili dei secoli XV-XVIII giunti sino a noi. Non solo, la licentia populandi garantiva loro anche di auto nominare gli ufficiali dell’amministrazione locale, e di conservare lingua, tradizioni e rito liturgico della terra d’origine. Tutto questo a fronte solamente del pagamento, ogni agosto, di una decima alla Diocesi di Monreale, del rispetto di alcuni obblighi di carattere feudale come il divieto di costruire un mulino, e come già detto della restaurazione della cultura del grano.
Queste condizioni, insieme alla posizione relativamente isolata di Piana degli Albanesi, permisero ai suoi abitanti di conservare la loro specifica identità culturale e rendere la città un punto di riferimento per tutti gli Arbëreshë di Sicilia. Non è un caso quindi che il centro sia conosciuto anche come «Hora», termine albanese traducibile come «il luogo, la città, la casa per eccellenza». Così come non è un caso che nel corso dei secoli siano sorte a Piana degli Albanesi un gran numero di istituzioni religiose ed educative che hanno contribuito a conservare lingua, religione e cultura arbëreshë.
Si pensi, solo per citarne alcune, al Collegio di Maria per giovanette siculo-albanesi, fondato nel 1731 da Antonino Brancato; alla Congregazione dei preti celibi albanesi (1716); all’Oratorio dei padri filippini di rito greco (1716) voluto da padre Giorgio Guzzetta; all’Eparchia istituita nel 1937; al Seminario italo-albanese trasferito da Palermo durante la Seconda guerra mondiale; o ancora al Convitto vescovile pre-seminario (1940).
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Colonia greco-albanese di Contessa Entellina
L’abitato di Contessa Entellina trae origine dal casale di Contessa, attestato sin dal 1296 e denominato così per via della contessa Eleonora d’Aragona, sua proprietaria sino al 1405. I coloni greco-albanesi, invece, vi si stabilirono quando il casale, ormai abbandonato, e tutto il feudo circostante erano divenuti appannaggio di Alfonso II Cardona. Al 1520 risalgono, infatti, i capitoli di fondazione della colonia che, al pari di Palazzo Adriano e Mezzojuso, fu voluta dal Cadorna per ripopolare con genti nuove i suoi possedimenti afflitti da una grave emorragia demografica. Secondo lo studioso ottocentesco Atanasio Schirò, invece, l’attributo “Entellina” deriva dal fatto che la nuova colonia era posta in prossimità delle rovine di Entella, un’antica città preromana poco distante.
Ai greco-albanesi fu quindi consegnato un gruppo di case diroccato e completamente da ricostruire, cosa che dovette avvenire in brevissimo tempo giacché alla fine del Cinquecento il nuovo abitato registrava già la presenza di circa 700 abitanti, in larga parte arbëreshë ma anche latini.
Secondo le capitolazioni del 1520 tutti i coloni di Contessa Entellina avrebbero dovuto rimettere a coltura i campi circostanti, in cambio avrebbero goduto di agevolazioni o esoneri integrali sui tributi feudali e totale libertà di seguire la liturgia greca in luogo di quella romana. Non solo, fu stabilito anche che molte delle cariche politiche più importanti della comunità sarebbero state di esclusiva gestione degli abitanti stessi, mentre Alfonso II e i suoi successori alla titolarità del feudo si sarebbero riservati solamente la facoltà di nominare il segretario del capitano e il giudice.
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Colonia greca di Venezia
La presenza di immigrati greci fu una costante nella vicenda storica di Venezia. Dall’originaria dipendenza della città da Bisanzio in età altomedievale al progressivo affrancamento dall’Impero Bizantino, dalla formazione dell’Impero Latino d’Oriente a seguito della Quarta Crociata alla ricostituzione del dominio imperiale sulle rive del Bosforo nel 1261, i rapporti politici, diplomatici, commerciali e culturali con l’Oriente greco-bizantino e ortodosso caratterizzarono la storia della Serenissima nel corso di tutta l’età medievale.
Una svolta nei rapporti si ebbe dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani, quando la città lagunare divenne il punto di riferimento della diaspora dei greco-ortodossi verso l’Occidente. Il flusso migratorio era condizionato sia dalla libera scelta di chi si recava presso la città lagunare in cerca di fortuna, sia dalla necessità di abbandono dei luoghi natii a seguito dell’avanzata turca. Per i greci provenienti da Costantinopoli, Creta, Corfù, Zante, Patrasso o Cipro, la città lagunare poteva rappresentare il punto di arrivo oppure una tappa intermedia verso altre destinazioni, quali Trieste, Ancona, Napoli, Livorno, Genova, Marsiglia e l’Europa settentrionale.
Tra i greci che si stabilirono a Venezia la gran parte era di condizioni economiche medio-basse e vi esercitarono svariate attività, in genere socialmente modeste. Altri invece ebbero modo di arricchirsi. Come i mercanti che vi si affermarono tra XV e XVI secolo, quando lo sviluppo dell’Umanesimo e la riscoperta della cultura greca portò anche a Venezia illustri intellettuali del mondo greco-ortodosso. Alcuni membri della comunità greca della città divennero inoltre intermediari nel campo della circolazione libraria e protagonisti dello sviluppo della tipografia in lingua greca, nonché una componente fondamentale della marineria veneziana di età moderna.
Nel 1479 la colonia greca di Venezia, insediata principalmente presso il sestiere di Castello, vicino San Pietro, contava circa 4000 membri (su una popolazione di circa 110.000 abitanti). La maggioranza era di fede ortodossa e si adoperò con successo affinché la comunità fosse ufficialmente riconosciuta dal governo della Serenissima.
Nel 1498 fu istituita la Scuola di San Nicolò dei Greci, primo riconoscimento ufficiale della colonia greca. Nel 1514, dopo aver officiato per anni presso la chiesa di San Biagio, la comunità ottenne il permesso di erigere una propria chiesa di rito ortodosso, la basilica di San Giorgio dei Greci, ultimata nel 1573.
Nel corso del Seicento la comunità greca di Venezia arrivò a contare circa 14.000 membri, configurandosi come la più numerosa e prestigiosa comunità greca dell’Occidente. Nel 1665 apriva le porte il Collegio greco Flanginis di Venezia, dal 1677 al 1797 avente sede presso l’attuale palazzo dell’Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini, sorto nel 1951, che in parte ne ha raccolto la tradizione.
All’Istituto Ellenico ha sede una ricca biblioteca che conserva oltre 2000 volumi, per la maggioranza rare edizioni delle tipografie greche di Venezia. Nella vicina Scuola di San Nicolò dei Greci ha invece sede un Museo unico in Europa per la ricca collezione di icone bizantine.
La minoranza greca mantenne rapporti pacifici con la popolazione locale senza difficoltà di carattere teologico, a parte le naturali differenze dal punto di vista delle consuetudini religiose, della liturgia e della lingua. Rapporti dialettici furono invece intrattenuti con la Chiesa veneta e la Chiesa romana, quest’ultima maggiormente garante verso la comunità rispetto ai patriarcati locali. Come per altre colonie greche d’Italia, fu comunque l’edificio religioso a rappresentare il perno della coesione, dello sviluppo e dell’identità comunitaria.
Dal 1577 la chiesa di San Giorgio dei Greci divenne sede del metropolita di Filadelfia (Asia Minore), dipendente dal patriarcato di Costantinopoli. Il metropolita di Filadelfia, dal 1617 eletto dal capitolo generale della Scuola di San Niccolò dei Greci, divenne la massima autorità religiosa dei greco-ortodossi di Venezia, delle isole Ionie, della Dalmazia e dell’Istria. La fine della Repubblica di Venezia comportò anche la fine dell’istituzione del metropolita di Filadelfia, la cui sede tornò in Asia Minore. Dal 1991 la chiesa di San Giorgio dei Greci è divenuta sede del nuovo metropolita d’Italia.
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Colonia greca di Trieste
L’insediamento di una colonia di greci a Trieste venne favorito dalla necessità di sviluppare i commerci nella monarchia degli Asburgo d'Austria.
Trieste venne dichiarata porto franco a seguito del trattato di Passarowitz del 1718. Le prime attestazioni documentate di una stabile presenza greca a Trieste risalgono al 1734, quando Giovanni Mainati, insieme alla sua famiglia, originaria di Zante, decise di trasferirsi nella città adriatica.
Da quel momento, si registrò un incremento delle presenze elleniche, soprattutto di mercanti e artigiani, provenienti da diverse regioni della penisola balcanica. A Trieste prese forma una comunità etnico-religiosa complessa, costituita sia da greco-ortodossi che da serbo-ortodossi, chiamati dagli Asburgo “illirici”.
La comunità crebbe pur in assenza di un luogo di culto. Il 20 febbraio 1751 l’imperatrice Maria Teresa, per persuadere mercanti levantini a stabilirsi a Trieste, concesse agli ortodossi la libertà di professare il proprio culto, sebbene con alcune limitazioni.
Nel 1753 si diede inizio alla costruzione di un tempio intitolato a San Spiridione e all’Annunciazione.
L’iniziale scontento del ramo serbo-ortodosso, causato dall’assenza di un sacerdote illirico, si risolse alla fine del 1760 con l’intervento del vescovo di Carlstadt.
Egli «insistette presso le autorità austriache sulla necessità della presenza di un sacerdote illirico che» potesse «provvedere ai bisogni religiosi dei connazionali che non fossero in condizioni di comprendere l’idioma greco». Le messe iniziarono a essere officiate a giorni alterni sia in greco che in slavo.
Tuttavia, sul finire degli anni Cinquanta del Settecento i contrasti tra le due componenti levantine non erano cessati. Gli illirici, ritenendo che l’Intendenza non avesse rispettato le disposizioni sovrane che prevedevano l’uguaglianza fattuale dei serbi con i greci, continuarono a combattere per la propria causa.
La lunghissima serie di dispute tra quelli che di lì a poco sarebbero diventati due rami separati della comunità ortodossa di Trieste si concluse a favore dei serbi.
A partire dal 1781 i greci, non volendosi sottomettere ai serbi, decisero di abbandonare la chiesa di San Spiridione.
Il 9 agosto del 1782, con l’emanazione del Sovrano Rescritto, furono confermate le concessioni fatte ai greci dall’Imperatrice Maria Teresa e venne loro concessa la facoltà di fondare una Comunità greca su base nazionale e di costruire una chiesa greco-ortodossa.
Nel dicembre dello stesso anno, 63 capi di famiglia riuniti nella Cappella di casa Andrulachi, alla presenza del rappresentante del governo, parteciparono alla fondazione della "Nazione greca" (l’odierna comunità greco-orientale).
Seguì l’elezione di sei deputati, tra i quali Demetrio Carciotti, che furono incaricati sia di redigere uno statuto che regolamentasse l’organizzazione della Nazione, sia di provvedere alla costruzione della Chiesa intitolata a San Nicolò e alla Santissima Trinità.
Al fine di contribuire alle spese necessarie all’edificazione della chiesa, i consiglieri suddivisero i membri della Nazione in quattro classi di contribuenti in base alla condizione economica di ciascuna famiglia.
Sul finire del XVIII secolo, grazie alle attività commerciali e assicurative intraprese dalle più potenti e ricche famiglie greche, si assistette a un incremento della presenza ellenica in città.
La «plebaja greca» o i «miserabilissimi greci» - definizione coniata da alcuni ufficiali veneti nel 1754 alla fine del 1700 - avevano ceduto il posto a una comunità non soltanto compatta sul piano sociale e religioso, ma anche composta da personalità illustri che si erano affermate in diversi ambiti economici: fondatori di società di assicurazioni, membri della Borsa, negozianti capitalisti, imprenditori e azionisti industriali, proprietari immobiliari.
Nel corso dello stesso secolo e agli inizi di quello successivo i greci furono molto attivi anche nel settore industriale, in particolare nella produzione della cera, del sapone, del rosolio e della tintura rossa, utilizzata soprattutto dalle industrie tessili dell’Europa Centrale per i filati di cotone.
Fu importante, in tal senso, il sostegno dell’Imperatrice Maria Teresa alla nascita di imprese manifatturiere e industriali legate alla politica mercantilistica e quindi specializzate nell’impiego delle materie prime giunte nel porto cittadino.
Tuttavia, fu soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo che si verificò un notevole sviluppo in ambito industriale, con il conseguente inserimento in tale settore degli imprenditori greci più potenti: dalla Società del molino a vapore, tra i cui azionisti compariva anche Giovanni Scaramangà, alla Molino a vapore (per le farine) di Giovanni Andrea Economo, fino alle imprese tessili di proprietà delle famiglie Ralli e Scaramangà.
A differenza di altre città come Livorno, Venezia e Vienna, a Trieste non esiste un’area urbana che sia stata concepita per essere riservata esclusivamente alla comunità greca. Come si legge nel testo di Olga Katsiardi-Hering, «i Greci di Trieste fecero parte della popolazione della città insieme agli altri “immigrati”, cattolici e “acattolici”. Un quartiere veramente greco era costituito dal complesso di palazzi dell’isolato vicino alla chiesa di San Nicolò. Anche le case che si trovavano nelle vicinanze furono acquistate da greci tra i quali Bartella, Livaditi e Carciotti. La presenza greca è evidente già alle porte della città con il palazzo Carciotti».
Quest’ultimo, fatto costruire da Demetrio Carciotti nel 1798, testimonia la tendenza da parte dell'élite economico-sociale della comunità greca a investire i propri capitali in immobili. Una tendenza rilevabile per tutto il XIX secolo, che trova conferma nei numerosi edifici fatti erigere dalle famiglie Scaramangà, Economo, Stratti, Galatti, Afenduli, Ralli, Giannichessi, che si ergono maestosi all’interno della città. Le famiglie greche più facoltose potevano possedere dai due ai quattro edifici o persino un intero complesso residenziale composto da più palazzi.
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Chiesa Baratti Giuseppe Ignazio Maria
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Maniotti in Val di Perga
Accordi tra il nobile toscano Giulio Spellinghi e il greco Gio Greghis per lo stanziamento di venti famiglie maniotte in Val di Perga