di Pietro Giovanni Sanna
MANCA DELL'ARCA, Andrea. - Nacque a Sassari l'8 luglio 1707 dai nobili Carlo Manca Martinez e Cecilia Dell'Arca (non nel 1716, come ritenne la storiografia ottocentesca e prevalentemente si indica ancor oggi). Secondo di sette figli, ma primo dei tre maschi, il M. poté presto fruire dei privilegi che i genitori, esponenti di un'agiata aristocrazia organicamente inserita nel sistema degli uffici regi e feudali, riservarono all'erede del casato.
Nel 1735, nel quadro di un'accorta strategia matrimoniale, il M. sposò Anna Maria Martinez Farina, figlia di un cugino del padre, il nobile Matteo, e di una cugina della madre, la nobildonna Clara Farina. Con i patti nuziali (dicembre 1734) i genitori gli assegnarono in fedecommesso, a scapito delle legittime dei fratelli, alcuni fra i più ambiti gioielli di famiglia: due palazzi di pregio nel cuore della città (uno collegato direttamente con la dimora principale dei Manca) e un'ampia tenuta agricola con frutteto, vigneto e oliveto, in una zona rinomata del territorio suburbano. Alla giovane coppia, che sarebbe subentrata nella piena disponibilità dei beni alla scomparsa dei donatori, fu offerta perenne ospitalità nella casa paterna, dove ebbe a disposizione "la mesa y el servicio de la familia". Ma il matrimonio durò ben poco perché la Martinez morì al primo parto, insieme con il bambino.
Per il M. seguì un periodo particolarmente sfortunato: nel dicembre del 1738 s'impegnò a nuove nozze con Manuela Mallano y Langasco, figlia dei nobili Giuseppe Mallano e Francesca Langasco, che nei capitoli matrimoniali promisero in dote la residenza di famiglia e diversi uliveti, frutteti e vigneti. Ma i patti non ebbero seguito e di lì a qualche anno il M. sposò Luisa Pilo Pilo, figlia del giudice municipale Antonio Pilo Sampero e della nobildonna Speranza Pilo Quesada. Anche il secondo matrimonio finì prematuramente per la scomparsa della consorte; sicché nel giugno del 1747 il M., quasi quarantenne, adempì ancora una volta a una penosa restituzione di beni dotali. Tra lui e la famiglia si erano intanto accumulati attriti, sebbene sul finire degli anni Trenta i destini dei sette fratelli fossero ormai precisamente orientati.
Ma sul giovane M. altri motivi di tensione si erano concentrati nella seconda metà degli anni Trenta, quando - durante le prolungate assenze del padre impegnato nel governo del contado del Goceano -, profittando della procura del genitore, aveva disinvoltamente gestito le rendite consumandone gran parte per suo tornaconto ("con pretexto de vestirse y de hazer casa nueva en la viña a el destinada"); sicché il capofamiglia, al ritorno, aveva dovuto imporgli di rifondere quanto sottratto, detratte le spese sostenute per addottorarsi in giurisprudenza, intraprendere la professione forense e pagare il privilegio regio per la carica di veghiere (giudice) municipale, decretato a Torino l'11 ott. 1738. Per il padre, d'altro canto, l'aver investito nella carriera del figlio era motivo di orgoglio e promessa di nuovi cespiti. Tuttavia i contrasti si riproposero quando, morto nel 1765 l'anziano capofamiglia, la divisione della cospicua eredità sfociò in una lunga causa civile tra il M. e i suoi germani, Francesca e Giuseppe. La lite si concluse solo nel 1784 dopo la scomparsa di questi ultimi, con una sostanziale riunificazione del patrimonio in capo all'ultrasettantenne M., unico erede superstite. Così egli finì per ereditare, pur in età assai avanzata, le ingenti fortune accumulate dal dinamico genitore, ex amministratore dei vasti feudi del contado d'Oliva e "governatore a vita" del feudo regio della contea del Goceano.
Da questi precipui interessi scaturì la sua singolare Agricoltura di Sardegna, pubblicata a Napoli nel 1780.
Il giudizio sul trattato del M. pone un problema d'inquadramento storico che s'intreccia con la questione, più recentemente posta, della lunga gestazione dell'opera, concepita, e forse in alcune parti anche sbozzata, già alla fine degli anni Quaranta. Lo si evince da diversi indizi e riferimenti testuali, come dalla chiusa del capitolo sulle api, in cui il M. non esitò a collegare il sollievo per l'ormai completata stesura di quella parte alla soddisfazione per la fine della guerra di successione austriaca e per la pace di Aquisgrana. L'impostazione dell'opera risalirebbe, così, a un'epoca perfino precedente alla nascita della fiorentina Accademia dei Georgofili (1753-54), che scandì in Italia l'emergere della nuova sensibilità agronomica.
L'opera del M. non si può dunque unicamente misurare con il metro della cultura e del sapere agrario degli anni Settanta-Ottanta del Settecento. Va piuttosto inquadrata nel coevo filone della letteratura agronomica, che ebbe la sua più emblematica espressione nel manuale del pistoiese C. Trinci, L'agricoltore sperimentato, apparso a Lucca nel 1726 ma più volte rimaneggiato e ripubblicato nel corso del secolo. Si spiega, così, con l'apparente anacronismo, anche il particolare valore che il M. poteva attribuire al suo manuale pratico, in ragione del vuoto che colmava nell'istruzione agronomica locale. In effetti, grazie all'impianto pragmatico e didascalico, l'opera riusciva a trasmettere, in modo preciso e talvolta dilettevole, i segreti di una saggia agricoltura, modellata su pochi buoni libri, sugli insegnamenti della tradizione locale e sulla sistematica osservazione dell'esperienza maturata dall'autore. Per ogni ramo di attività, dalla cerealicoltura all'orto, dalla vigna all'allevamento del bestiame, descriveva le principali operazioni colturali, dispensava suggerimenti su tempi e modi di esecuzione dei lavori agricoli, forniva indicazioni utili e notizie curiose sulle molteplici possibilità d'impiego dei prodotti della casa rustica (e delle piante selvatiche) nell'alimentazione, nella farmacopea e nella vita quotidiana.
Con qualche ragione il M. poteva quindi dolersi dell'astrattezza dell'autorevole e paludato Rifiorimento, ma ciò che in realtà più lo irritava non era che il "reverendo Francesco Gemelli, italiano" non avesse sufficientemente insegnato l'"arte georgica", quanto che avesse tentato, con i suoi "economici e storici discorsi", di convincere la "Nazione Sarda" ad accettare "la riforma e l'abolizione di molti costumi, confermati dalle leggi e statuti del Regno". In effetti, di là da un patriottismo legato alla conservazione del regime fondiario e alla difesa del quadro sociale (sotgiu), il M. era convinto che gran parte di ciò che arrivava dall'esterno mal si adattasse alla realtà isolana. Di qui la teorizzazione dell'incomparabile diversità dei problemi dell'agricoltura sarda rispetto a quelli di altre regioni, che gli faceva considerare con metodica indifferenza le principali correnti del pensiero agronomico europeo. Era quindi naturale che rivendicasse la paternità della prima opera generale sull'agricoltura sarda scritta da un sardo: "Ho giudicato opportuno scrivere dell'agricoltura propria di Sardegna, tanto più perché non si tengono riscontri di aver scritto di essa paesano alcuno".
L'opera fu significativamente pubblicata a Napoli - non solo, dunque, fuori della Sardegna, ma dello Stato sabaudo -, verosimilmente per sfuggire - è stato opportunamente osservato - al controllo degli ambienti governativi che continuavano a sostenere le proposte del gesuita piemontese Gemelli (Ortu); è inoltre significativo che il manuale di un'agronomia regionalmente e mediterraneamente connotata vedesse la luce presso la rinomata tipografia di Vincenzo Orsino, che solo nel 1770 aveva pubblicato il Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra di D. Grimaldi, fra i primi testi del riformismo agrario meridionale.
La sua cultura restava espressione di un'erudizione di provincia e i suoi riferimenti ancorati a una letteratura molto datata, se confrontata con il quadro culturale della Sardegna degli anni Settanta-Ottanta, già segnato dall'onda lunga delle riforme educative che tutt'al più contribuivano a convincere il M. dell'opportunità di rischiare goffaggini di stile pur di scrivere in "idioma italiano". La lingua italiana per lui, castiglianoparlante, era "tanto nativa come la latina, la francese e altre forestiere" [p. IV], ma poteva permettergli di raggiungere il pubblico dei lettori da poco alfabetizzati. Non è dunque un caso che i pochissimi autori agrari da lui menzionati appartenessero alla tradizione classica presettecentesca, come Tanara, il bresciano A. Gallo, pietra miliare dell'agronomia rinascimentale, o l'agronomo del "grand siècle" J. de La Quintinie, creatore dei giardini di Versailles e autore della Instruction pour les jardins fruitiers et potagers (1690), nel 1704 compendiata in italiano, espressione di un'aristocratica tradizione estetico-agronomica ma anche uno dei primi trattati agronomici moderni. Ugualmente significativo è inoltre il riferimento all'enciclopedico Teatro crítico universal di B.J. Feijoo, ricordato nelle pagine introduttive, rimaneggiate (se non interamente composte) nella seconda metà degli anni Settanta: evidentemente, per l'anziano possidente sassarese che si accingeva a dare il lavoro alle stampe, la fortunata opera del benedettino spagnolo, che attuava una cauta seppur convinta apertura al razionalismo, costituiva ancora l'idea di modernità in cui si riconosceva: tanto che ne suggerì la lettura ai nobili locali, che riteneva di dover conquistare a un'attiva conduzione delle loro proprietà fondiarie.
L'opera del M. si rivolgeva tuttavia anche a chiunque a vario titolo intendesse acquisire conoscenza delle buone regole delle attività agricole, per metterle in pratica o poter impartire le necessarie direttive ai propri "lavoranti". Ciononostante l'Agricoltura di Sardegna non ebbe la fortuna editoriale che l'autore forse si aspettava: nel 1795, a quindici anni dalla pubblicazione e all'indomani della morte del M., nella sua dimora ne furono trovate 130 copie legate in modo rustico e un quantitativo imprecisato di altre sciolte. Il fatto è che l'opera era stata accolta con freddezza negli ambienti governativi e nelle ristrette élites isolane sensibili alla razionalizzazione delle pratiche agricole e a letture agronomico-erudite. Anche la notizia della cooptazione del M. come "socio libero corrispondente" nella Società agraria torinese, accreditata dal censore generale dell'agricoltura, G. Cossu, nella sua Istruzione olearia del 1789, non trova riscontri nei registri dell'Accademia d'agricoltura di Torino, sebbene sia stata accolta dai biografi ottocenteschi e dal pur informato G. Manno.
Negli ultimi anni di vita, nonostante l'età avanzata, il M. gestì ancora alacremente un patrimonio immobiliare vastissimo, in parte dato in affitto e in enfiteusi; sorprendentemente, lo incrementò con ulteriori acquisti e nuovi investimenti, sebbene destinato a essere eredità per i nipoti Manca Brea. Mentre in un primo tempo non aveva disdegnato di ricoprire cariche pubbliche (nel 1771 era stato capo giurato e aveva guidato l'amministrazione municipale), ora non aveva più le energie per far fronte ai doveri dello stato nobiliare e, nel dicembre del 1791, rifiutò di far parte della Commissione per l'amministrazione delle torri, per la quale era stato sorteggiato a Torino.
Il M. morì a Sassari il 17 febbr. 1795, in tempo per non assistere ai moti contadini e alla sollevazione antifeudale che avrebbero infiammato il Capo settentrionale dell'isola, scuotendo dalle fondamenta il mondo agrario e baronale cui egli era intimamente legato.
Fonti e Bibl.: Per i dati anagrafici cfr. Sassari, Arch. stor. diocesano, Quinque libri, Sassari S. Caterina, Bapt. (1707-17), c. 32; Def. (1777-1819), c. 687. Per le vicende familiari e le attività economiche e professionali: Arch. di Stato di Sassari, Atti notarili, copie, Sassari città, 1739, I, cc. 63-64v; 1748, II, cc. 274-275; 1763, III, cc. 230-231v; 1765, I, cc. 51-55, 119-127; II, cc. 142-156v; 1791, II, cc. 72-77; III, cc. 137-140v, 954-955v, 1051; Atti notarili, originali, Abozzi Francesco, VI, cc. 262-269v; ibid., Abozzi Serra Francesco, IV, cc. 316-350; Fondo storico del Comune di Sassari, b. 27, f. 6; Il "Liber Professionum" delle Isabelline di Sassari (ed. in facsimile del manoscritto), a cura di G. Zichi, Sassari 1992, p. 41; F. Gemelli, Orazione in lode di s. Gavino martire, Sassari-Livorno 1769; G. Manno, Storia di Sardegna, Torino 1825-27 (rist., Nuoro 1996), III, p. 289; G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, I, Cagliari 1843, pp. 265-267; L. Bulferetti, Le riforme nel campo agricolo nel periodo sabaudo, in Fra il passato e l'avvenire. Saggi storici sull'agricoltura sarda in onore di Antonio Segni, Padova 1965, p. 335; La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari 1967, pp. 7 s., 101-165; G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Roma-Bari 1984, pp. 127 s.; G. Marci, Intorno a un trattato settecentesco. Letteratura, agricoltura, rinascita della Sardegna e altre cose, in La Grotta della vipera (Cagliari), XIII (1987), 40-41, pp. 33-39; Id., L'"agricoltura di Sardegna" di A. Manca Dell'Arca: un trattato del Settecento sardo, in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Cagliari, n.s., XI (1990), pp. 93-133; M.L. Simon, La Sardegna antica e moderna, a cura di C. Sole - V. Porceddu, Cagliari 1995, pp. 24, 143, 161; P. Sanna, La vite e il vino nella cultura agronomica del Settecento, in Storia della vite e del vino in Sardegna, a cura di M.L. Di Felice - A. Mattone, Roma-Bari 1999, pp. 146 s., 163-171, 184 s., 193-201; G. Marci, Introduzione, in A. Manca Dell'Arca, Agricoltura(, cit., Cagliari 2000, pp. IX-XCII; G.G. Ortu, Prefazione, in Manca Dell'Arca, Agricoltura(, cit., Nuoro 2000, pp. 9-30; P. Tola, Diz. biografico degli uomini illustri di Sardegna, II, Torino 1837, pp. 213-215; P. Martini, Biografia sarda, II, Cagliari 1838, pp. 287-290.