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Chiesa e villaggio di Santa Maria di Pramonti Nell'antico villaggio di Pramonti, situato a 4 km a nord di Nuraminis e a nord est di Villagreca, vi era una parrocchiale intitolata alla Vergine dell'Assunta. Nei documenti della prima metà del 300 il nome del villaggio viene indicato nella forma Postmonti, Pramonti, Prumonti e versioni affini. Dalla seconda metà in poi Postmontis, Postmont, Postmunt, Pramontis e altre varianti.
Risulta opportuno sottolineare il ruolo determinante dell'esercito bizantino impegnato in Sardegna per via della dominazione dei Vandali poichè insieme alle milizie bizantine arrivarono anche i monaci e a loro si deve, nell'agiografia sarda, l'introduzione dei santi così come il culto a Maria madre di Dio (Santa Maria Assunta). È in questo contesto che trovano spiegazione il toponimo e l'origine di Villagreca così come la presenza di edifici e spazi sacri.
Di grande importanza per lo studio della località di Santa Maria di Pramonti è l'archeologia poichè si presenta come un sito pluristratificato con diverse prove d'insediamento e riconducibili a epoche diverse. Questa località è interessata dalla presenza di tre agglomerati insediativi, un abitato, un'area funeraria e un luogo di culto utilizzati dall'uomo almeno fino a età medievale, considerando che è possibile datare l'insediamento tra il III e il II millennio a.C.
Le maggiori conferme materiali si hanno per il percorso che dall'età romana giunge al medioevo, in particolare frammenti ceramici da mensa, da cucina, ceramiche d'uso comune e da fuoco. La zona funeraria è indicata dalla presenza di sepolture alla cappuccina
(tegole rettangolari disposte a spiovente sull'inumato), mentre nella parte più elevata dell'area, presso una collina, segnaliamo dei tratti murari costruiti con pietre legate con malta di fango. Questi elementi suggeriscono l'esistenza di una costruzione riconducibile probabilmente a un edificio di culto cristiano, la chiesa di S. Maria. In mancanza di dati di scavo non è stato possibile chiarire la destinazione d'uso ma anche il dizionario geografico - storico evidenzia l'esistenza di antiche costruzioni entro il territorio di Nuraminis, tra cui a Prumontis un pezzo di muro della chiesa dedicata proprio a Santa Maria. La chiesa sopravisse sino al XVIII secolo, nel secondo 700 si presenta in stato di abbandono.
Nell'area dell'insediamento sono stati rinvenuti frammenti di manufatti ceramici riconducibili a produzioni di età bizantina, in particolare ceramica sovradipinta la cui attribuzione non è certa a causa dell'estrema frammentarietà. A tal proposito, risulta interessante uno studio di confronto con l'Italia centrale in quanto sono stati rinvenuti manufatti datati VI - VII secolo, precisamente imitazioni locali di ceramiche egiziane sovradipinte presenti sopratutto in Abruzzo nell'area di Crecchio ( ceramica di tipo Crecchio ). Questa tipologia decorativa elaborata a più colori è stata messa in relazione con la presenza nell'area abruzzese di un reggimento bizantino di origine egiziana, ma come sono arrivati i frammenti di questa classe ceramica nel contesto di S.Maria di Prumontis? Gli studiosi hanno escluso l'importazione diretta dall'egitto ipotizzando la provvenienza dall'Italia centrale con parte dell'esercito di stanza nella penisola destinato a rafforzare il territorio sardo, in quanto parte dell'impero bizantino.
A un periodo successivo appartengono i frammenti di ceramiche giudicali, cioè manufatti di produzione locale circolanti in età giudicale. Alla presenza pisana si devono il frammento di bacino in maiolica arcaica rinvenuto nei pressi della fontana di S.Maria.
L'insediamento di Prumontis si è estinto nella seconda metà del XV secolo, secondo John Day già nel 1476 risulta disabitato. Tuttavia, è interessante notare come un inventario inerente alla baronia di Monastir, datato 1455, descriva Promont come Villa già spopolata, indicando perciò uno spopolamento antecedente alla data indicata dallo storico statunitense. Nell'inventario, inoltre, emergono una serie di informazioni di nostro interesse. In riferimento al 1421, risulta la concessione in feudo di alcune Ville, tra cui Promont, fatta dal re Alfonso V d'Aragona presumibilmente in favore di Nicolò Caciano (o Cassiano). Di circa dieci anni successiva risulta la vendita della Villa di Promont con il consenso regio in favore di Gio DeDoni, che avrebbe acquistato il feudo mediante gli alfonsini. Datata 1454 risulta invece la vendita della Villa eseguita dalla famiglia DeDoni in favore di Pietro Bellit, con successiva conferma di vendita. Dall'inventario in questione, risulta che tale feudo durante il periodo aragonese fosse prima in mano alla famiglia Caciano, successivamente alla famiglia DeDoni e infine al mercante di Cagliari Pietro Bellit. Tutto ciò è riconducibile anche a dinamiche di storia dell'èlite, considerando che i Dedoni ottennero diplomi di ampliamento dei feudi in remunerazione dei servizi resi alla corona. In aggiunta a questo, pare che i Dedoni riuscirono ad ottenere l'abilitazione per una possibile eredità delle figlie femmine anche sul feudo di Promont , contrariamente agli aspetti del mos Italiae.
Nell'area è stato rinvenuto anche un frammento di piatto del XVI secolo in ceramica toscana e questo testimonia la frequentazione sporadica del sito dovuta alla presenza della fonte o alla chiesa stessa. Le fonti materiali indicano inoltre come i processi di abbandono possano essere contraddistinti da fasi di ripresa e allentamento, una coesistenza tra abbandono e continuità.
Dopo l'unificazione dell'Aragona con la Castiglia nasce la monarchia e anche la Sardegna passa sotto dominazione spagnola. Il nipote dei re cattolici, Carlo V, concesse l'investitura del feudo di Promont insieme alla madre Giovanna a Ludovico Bellit d'Aragall, in quanto erede del feudo precedentemente gestito dal padre Salvatore Bellit (1518).
Nel XVI secolo l'area del villaggio è stata assorbita dalla giurisdizione di Nuraminis e la parrocchiale viene declassata al rango di chiesa rurale. Fra gli eventi determinanti nello scatenare la crisi dei villaggi è stata individuata proprio la conquista aragonese con tutte le conseguenze belliche, economiche, sociali e territoriali che comportò. L'introduzione stessa del sistema feudale creò un enorme disequilibrio per la scomparsa di tantissimi abitati tra XIV e XV secolo. Il fenomeno in questione, sopratutto tra il medioevo e l'età moderna, è tuttavia dovuto a una combinazione di fattori quali guerre, epidemie, carestie e dinamiche sociali di spopolamento riconducibili anche a fenomeni di microstoria come il banditismo. Si evidenzia, pur tenendo conto della peste, l'improbabilità che quest'ultima abbia inciso in maniera consistente nelle zone rurali provocando un maggior numero di vittime nei centri più densamente popolati. A tal proposito, per lo studio del fenomeno, non va trascurata la capacità di attrazione delle nuove città.
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Statua di Santa Barbara La statua di Santa Barbara si trova all'interno della Cappella della Madonna di Bonaria.
Raffigurata stante mentre tiene un libro dorato con la mano sinistra, la Santa porta una veste azzurra coperta da un manto rosso. Alla sua destra si trova la torre, simbolo del martirio e propria della tradizione iconografica.
L'autore della statua è Giuseppe Antonio Lonis, celebre scultore attivo in Sardegna nella Seconda metà del Settecento. La testa della martire non è l'originale prodotta dal Lonis, ma è frutto degli interventi di restauro effettuati verosimilmente nel corso del XX secolo.
La presenza della statua è segnalata sotto la voce "Simulacri" nell' "Inventario della parrocchia di San Pietro apostolo del comune di Nuraminis", compilato dal parroco Attilio Spiga nel 1925. Alla statua vengono attribuite le caratteristiche: «legno, venerata».
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Statua di Sant'Agnese Nella parete destra della Cappella della Madonna di Bonaria, troviamo il simulacro di Sant’Agnese, la santa è raffigurata con una veste bianca e un manto rosso. Lo sguardo della santa è rivolto verso l'alto e nella mano destra tiene la palma del martirio, mentre con la sinistra stringe un agnello al petto.
La statua è collocata all'interno di una teca di vetro.
Nella sommità della decorazione marmorea entro cui è collocata, è presente una decorazione di motivi fogliformi con un medaglione nero al centro che raffigura al suo interno la croce e due gigli, anche se questi oggetti non fanno parte della simbologia della Santa.
Nell'estremità inferiore della decorazione marmorea, invece, è incisa la scritta "INTILLA LUIGI- FECE L'ANNO 1914", a ricordo della data di realizzazione dell'opera e di chi l'ha finanziata.
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Statua di San Luigi Gonzaga Sul lato destro della Cappella della Madonna di Bonaria è situato il simulacro ligneo di San Luigi Gonzaga, in talare e cotta e con il crocifisso rivolto verso sé nella mano destra.
È possibile che la statua sia stata realizzata da una bottega sarda considerando la tradizione locale di scultura religiosa. Infatti, una statua simile, datata tra il 1690 e il 1710, attribuita a una bottega sarda e conservata a Sadali.
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Statua di Sant'Efisio Sant'Efisio è uno dei martiri sardi più illustri e ancora oggi venerati. Quest'anno, infatti, si è tenuta la 369° festa in suo onore.
Nella Cappella della Madonna di Bonaria, a sinistra della statua centrale è collocata la statua lignea di Sant'Efisio. Datata al Settecento, è in legno intagliato e policromato. Il santo segue l'iconografia tradizionale, è raffigurato con delle vesti da guerriero romano con elmo, stivali e spada dorati; il mantello, invece, è rosso con dettagli più chiari.
Il Santo è rappresentato in piedi su una base marmorea sui toni del grigio.
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Statua di Santa Teresina del Bambin Gesù Alla sinistra della Madonna di Bonaria troviamo la piccola e più recente statua di santa Teresina del Bambin Gesù, raffigurata nel suo abito carmelitano, con la veste marrone e il manto bianco, e con il Crocifisso e le rose stretti al petto.
La statua è in piedi sopra una base marmorea bianca e nera. Lo sfondo nero, con motivi dorati, risalta il colore chiaro del manto della Santa.
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Statua della Madonna di Bonaria La statua della Madonna di Bonaria è collocata nella nicchia centrale sopra l’altare della cappella a lei intitolata (Capella della Madonna di Bonaria).
Protetta da un vetro dotato di una cornice dorata di forma arcuata, la statua riproduce il simulacro conservato nel santuario di Bonaria a Cagliari.
La Vergine indossa una veste rossa coperta da un manto celeste e tiene in braccio sul lato sinistro il bambin Gesù, mentre con la mano destra porta una navicella e una candela. Sono evidenti i rimandi simbolici legati ai due oggetti. La candela rimanda al momento in cui, il 24 aprile 1370, il simulacro della Vergine approdò dal mare alle pendici del colle di Bonaria, tenendo in mano una candela accesa. La navicella, invece, è legata al ruolo di protettrice dei naviganti assunto dalla Madonna di Bonaria.
Dalla seconda metà del Novecento, ogni 24 aprile a Nuraminis si festeggia la Madonna di Bonaria. Il giorno della festa, la sera, la statua viene portata in processione lungo le vie del paese. Al termine della processione, viene celebrata la messa con omelia.
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Retablo della Madonna del Rosario Il Retablo del Rosario è collocato sopra un altare in marmo bianco con intarsi policromi datato al 1848.
Dell’opera a primo impatto colpiscono i medaglioni a bassorilievo con i Misteri disposti a semicerchio a incorniciare la nicchia che ospita la Vergine con il Bambino. Sotto la nicchia, si osserva una pittura in cui si osservano due gruppi di fedeli composti da cinque persone che inginocchiati pregano ai lati di un albero simbolico.
Tutta la composizione risulta coerente nella sua realizzazione e fa supporre che sia frutto della mano di un unico autore. Se dovessimo confrontare il retablo con altre opere lignee, quali ad esempio la rappresentazione dell’Ultima cena del tabernacolo di Monserrato, composta dal Puxeddu, parrebbe che anche l’Ancona del Rosario di Nuraminis sia opera del medesimo autore. In base a questa comparazione si può asserire che il Puxeddu nel Retablo del Rosario è autore sia delle parti scolpite sia di quelle dipinte.
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Pulpito della chiesa parrocchiale di San Pietro Il pulpito è collocato sul lato sinistro della navata, tra la terza e la quarta cappella dall'ingresso principale. Ad esso si accede attraverso delle scalette che partono dalla Cappella della Croce.
Costruito in marmo intarsiato policromo, è sormontato da un baldacchino ligneo finemente decorato.
Sulla parte frontale vi è l'iscrizione in latino: "PRINCIPI APOSTOLORUM / EMANUEL ARCHIEP. KARAL / ANNO MDCCCXLVIII", che data la posa al 1848, durante l'episcopato del Vescovo Giovanni Emanuele Marongiu Nurra, originario di Borutta.
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Navata centrale della chiesa parrocchiale di San Pietro La navata della chiesa parrocchiale di San Pietro ha pianta rettangolare ed è coperta da una volta a botte, frutto di un rifacimento del XVII secolo. Precedentemente il tetto doveva essere ligneo.
La volta è divisa in quattro settori da diaframmi, che poggiano su delle semicolonne laterali con capitello decorato. Tra le semicolonne delle pareti laterali si aprono le otto cappelle con archi a tutto sesto.
Gli affreschi della volta furono realizzati tra il 1922 e il 1924 dalla bottega dell’artista cagliaritano Battista Scanu e presentano per ciascun settore un grande medaglione centrale polilobato su un fondo di motivi geometrici e vegetali.
Partendo dal primo settore dall’entrata, i medaglioni raffigurano: una croce greca dorata su fondo azzurro; la scena evangelica di Gesù che parla con i bambini; la liberazione di San Pietro dal carcere ad opera di un angelo; una colomba dorata su fondo azzurro.
Le fasce laterali alla base della volta, al di sopra del cornicione, recano al di sopra della seconda e terza cappella di entrambi i lati quattro medaglioni che ritraggono gli evangelisti: San Marco e San Giovanni a sinistra; San Matteo e San Luca a destra.
All’altezza dei capitelli delle semicolonne, a entrambi i lati della navata, sono disposte quattordici formelle della "Via Crucis", realizzate in bronzo nel 1997 dall’artista monserratino Gianni Argiolas, le quali andarono a sostituire le precedenti in gesso dipinto.
Nelle parete sinistra, tra prima e seconda cappella, è presente una lastra marmorea funeraria di Mons. Paolo Maria Serci-Serra, vescovo della Diocesi di Cagliari dal 1893 al 1900 e originario di Nuraminis; tra la terza e la quarta cappella si erge il ricco pulpito marmoreo.
Nella parete destra, tra terza e quarta cappella, è fissata una lastra di marmo con l’ultima consacrazione della chiesa, avvenuta il 24 aprile 1894 ad opera del Vescovo Paolo Maria Serci-Serra.
Nella parete di fondo si apre l’arco a sesto acuto che introduce al presbiterio. Ai lati di questo si aprono due nicchie in marmo intarsiato in stile classicheggiante, che recano iscritta la committenza e la data: “DONO DI CARLO E MARIA CASU - 1956”.
La nicchia sinistra ospita la statua ottocentesca di San Pietro, quella destra il complesso scultoreo della Madonna del Rosario di Pompei col bambinello, san Domenico di Guzman e un cagnolino.
Al di sopra delle nicchie corre una fascia affrescata che reca a sinistra un medaglione con il Sacro Cuore di Gesù e a destra un uguale medaglione con il Cuore Immacolato di Maria. Lo spicchio superiore della volta è decorato invece da motivi geometrici.
Nella parete d’ingresso, in corrispondenza del portale, è collocata una preziosa struttura lignea settecentesca, dipinta di verde e impreziosita da decorazioni vegetali dorate. Questa consiste della bussola, che presenta due porte laterali e il grande portone frontale, con una fascia superiore traforata di finestrelle quadrate; di una grande tribuna con balaustra e stemma centrale, che si estende fino alle pareti laterali, adibita fino al secolo scorso ad ospitare il coro. La porzione di parete superiore al piano della tribuna è affrescata con motivi geometrici ed è aperta al centro dal rosone. A destra della bussola è appesa la grande croce di legno con due scalette, utilizzate ogni anno di Venerdì Santo per la cerimonia de “Su scravamentu”. Agli angoli della parete sono collocate le due acquasantiere di marmo bianco.
La pavimentazione è in ampi pannelli di marmo quadrati a scacchi grigi e bianchi, disposti diagonalmente rispetto alla navata.
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Statua di Sant'Antioco La statua di sant'Antioco si conserva all'interno della Cappella del Rosario sul sopragrado dell’altare marmoreo a sinistra del retablo del Rosario.
Il santo, riconoscibile dalla pelle scura, è raffigurato con una lunga veste di colore rosso, simbolo del martirio. Le due lunghe maniche della veste rimandano alla stesso modello del sant'Antioco di Iglesias.
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Candelieri Lignei I candelieri monumentali, corredo in coppia dell'altare o della mensa stessa, si ergono su una base a piramide tronca sostenuta da tre zampe leonine. I poggiante su disco baccellato con globo sommitale. Stilisticamente databili al tardo XII presentano tracce di doratura a guazzo.
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Statua del Cristo deposto La statua lignea del Cristo deposto, verosimilmente dell'ultimo scorcio del XVII secolo, è conservato all'interno di una pregevole teca del secolo successivo. Si trova sulla parete di fondo della prima cappella a sinistra della chiesa che deve al simulacro ligneo il suo nome, anche se negli scritti di monsignor Spiga viene chiamata anche Cappella delle anime. La cappella è tra tutte la più buia e spoglia.
La statua lignea del Cristo morto, adagiato su un panno violaceo, è posizionata sopra un semplice altarino. Adagiate sul muro ci sono la croce nera in legno massiccio e le due scalette laterali che vengono usate durante i riti della Settimana Santa.
Infatti, questo simulacro viene utilizzato nelle celebrazioni della Settimana Santa e viene portato in processione per le strade del paese la sera del venerdì Santo.
Il simulacro è di pregevole fattura, tra i più antichi di quelli custoditi in parrocchia, che rappresenta il Cristo, quasi a grandezza naturale, con gli occhi chiusi ed un viso disteso nella serenità della morte.
Evidente è la ferita del costato da cui sgorgano gocce di sangue dipinte sul fianco. Il corpo, cinto da una fascia verdognola, appare dilaniato dai tormenti della passione ed irrigidito nell'immobilità della morte. Il Cristo deposto presenta, inoltre, i fori nelle mani e nei piedi e le braccia snodabili per poter essere inchiodata e schiodata dalla croce, nel rito chiamato de Su Scravamentu.
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Cappella delle anime del purgatorio La cappella delle anime del purgatorio, detta in sardo 'de is ànimas', è la prima cappella che incontriamo sulla sinistra entrando nella chiesa parrochiale di San Pietro a Nuraminis.
Risulta essere la cappella con il soffitto più basso tra tutte, poiché su di essa insiste la maestosa torre campanaria. Alla vista risulta molto sobria.
Risalente probabilmente alla prima metà del XVII secolo, è abbastanza disadorna, ma al suo interno vanta un pregevole Cristo ligneo deposto e un altare marmoreo di altrettanto pregio. Sono anche presenti due sepolture, una delle quali conserva le spoglie della nobildonna Giovanna Angela Pes. Le spoglie sono coperte da una lastra marmorea grigia sulla quale è incisa l’epigrafe dedicata alla donna.
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Organo a canne Il pregevole organo a canne conservato nel coro, alle spalle dell'altare maggiore, è contenuto in una cassa-armadio con ante ed è un esemplare del 1772 riferibile alla produzione del laboratorio dell'organaro lombardo Giuseppe Lazzari (1709-1784), che aveva sede a Cagliari, nel quartiere Marina. Esso si rivela fra i meglio conservati della produzione lazzariana ed è un organo di tipo positivo. Venne sottoposto a periodici intervenni di manutenzione fin dai suoi primi anni di vita e agli inizi dell'Ottocento, poi nel 1975 - quando subì l'asportazione di un suo pezzo perché venisse sostituito - ma, a tutt'oggi, risulta assolutamente necessario un restauro completo.
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Intervista a Bruno Zonca Intervista al signor Bruno Zonca di Villagreca, riguardo Funtana Bella e Fontana Siutas
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Vaquer, Francesco Nato il 1° novembre 1839 e morto il 14 novembre 1921.
Ricoprì più volte cariche importanti all'interno del Consiglio comunale di Nuraminis. Svolse anche la funzione di Sindaco.
Si spese per la costruzione dell'attuale cimitero: è menzionato nella targa di benedizione del camposanto, nel quale si trova anche la sua sepoltura.
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Gruppo scultoreo della Madonna d’Itria Il gruppo scultoreo della Madonna d’Itria è posto all’interno di una teca in legno finemente lavorato, poggiata su una mensola in marmo, all'interno della Cappella della Madonna Assunta.
La Vergine raffigurata in piedi con una veste bianca a cinta in vita e un manto azzurro che la copre fino alla testa. Alla sua destra sta un personaggio inginocchiato con un copricapo in testa.
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Statua di San Giuseppe La statua di San Giuseppe si trova all’interno della Cappella dell’Assunta, sul lato sinistro.
Il Santo indossa una veste celeste coperta da un mantello marrone. Con la mano destra mantiene un giglio, mentre volge lo sguardo verso il fanciullo Gesù, che porta una croce sulla spalla.
Il 19 marzo, in occasione della festa del Santo, il simulacro viene esposto alla venerazione dei fedeli.
Nella parte bassa della nicchia che custodisce la statua è presente una targa in marmo con l’incisione: «Salvatore e Fanny Intilla Lai 1952». L’iscrizione riporta il nome dei benefattori che hanno finanziato l’opera e l’anno in cui è stata realizzata.
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La Vergine Dormiente Il simulacro della Vergine dormiente è custodito all’interno della Cappella della Madonna Assunta in cielo. Si tratta di una scultura ispirata all’iconografia bizantina, raffigurante la Vergine Maria dormiente adagiata su una lettiga in legno.
Il vestito indossato dalla Vergine è finemente ricamato a mano da Marietta Serci, figlia di Daniele, fratello maggiore di Monsignor Paolo Maria Serci.
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Soto Real, Efisio Giuseppe [Siotto Giuseppe] (religioso, scrittore)
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Chiesetta di Sant'Antonio Abate La chiesa di sant'Antonio abate di Nuraminis sorgeva in età moderna dove oggi è presente la cappella attuale. Era un'antica costruzione in mattoni crudi con un piccolo spiazzo dinanzi all'ingresso in cui tutti gli anni veniva acceso il falò alla vigilia della festa di sant'Antonio. Tutt'oggi è una chiesa privata tant'è che nacque come cappella all'interno dell'abitazione di una famiglia locale nella seconda metà del 1500 (casa Mudu Serci).
Vi sono diversi elementi che ci portano a pensare che la cappella effettivamente esisteva nel XVII secolo, tra cui la presenza al suo interno di una campana che presenta l'inscrizione S.ANTONI ORA PRO NOBIS ANNO DOMINI MDCXXXII (datazione 1632).
Va specificato che non sappiamo con certezza a chi appartenesse nel corso del 500 e risulta che i Mudu, famiglia non originaria del villaggio, ancora dovesse insediarsi a Nuraminis. A tal proposito, riportiamo il matrimonio tra Diego Mudu (di Sestu) e Serafina Corona (di Nuraminis) del 1699, in seguito alla quale Diego decise di trasferirsi . Uno dei figli di Diego Mudu e Serafina Corona è Juan Baptista Mudu che sposò Theresa Vacca, appartenente a una famiglia benestante. Dalla loro unione nacquero tre figli, tra cui Juan Augustin Mudu che sposò Ritta Serra, altro cognome rilevante già dal XVII secolo.
A Juan Augustin Mudu fece da testimone di nozze Battista Taris e il figlio di quest'ultimo, Antonio Andrea Taris (major di giustizia e molto influente nel villaggio) , diede in sposa la figlia Maria Taris a Paolo Mudu ( nipote di Juan Augustin Mudu e figlio di Juan Ramon Mudu).
Paolo sposò due donne benestanti, la già citata Maria Taris e successivamente Pasquala Musio di Donori. Lo stabile con la cappella del santo, che dalle respuestas del 1777 risulta in stato di abbandono, alla fine del XVIII secolo fu da Paolo Mudu o acquistato o ereditato dalla moglie Maria Taris (che potrebbe averlo ottenuto dall'eredità dello zio Antioco Taris, vicario in Nuraminis tra il 1770-1773). Si può ipotizzare questo aspetto perchè alla morte di costui iniziò una lite giudiziaria tra i fratelli di Antioco, zii di Maria.
Questa lite, riporta i nomi di Felicia Taris e Juan Andres Taris e al suo interno si parla del possesso di una casa ma senza ulteriori precisazioni. Ciò che attira la nostra attenzione è il censo presente nella lite poichè risulta uguale a quello dovuto da Paolo Mudu alla Causa Pia per la chiesa di sant'Antonio abate nell'inventario dei suoi beni del 1843 e nelle ricevute degli anni 1836-1842. Ciò che va evidenziato, è che questi elementi ci portano a comprendere che la chiesa diventò di proprietà di Paolo Mudu. La chiesa stessa, in un contesto storico come questo, diventa un simbolo di potere all'interno del villaggio.
Egli decise di diseredare tre dei quattro figli avuti dalla prima moglie poichè gli crearono numerosi dissapori in quanto problematici nei confronti della giustizia, una vera disfatta con i figli Taris. Dall'unione con la seconda moglie nacque Benigno Mudu alla quale Paolo concesse, attraverso un testamento, lo stabile con la chiesa e il compito di organizzare la festa. Abbiamo testimonianza di tale testamento e risulta che ci siano due differenti versioni.
Benigno diventò notaio studiando presso l'università di Cagliari e ricoprì la carica di sindaco nel villaggio negli anni 1869-1871 e 1892-1894. Sposò Maria Serci (figlia di un altro notaio) e dai due nacquero Maria Mudu maritata Podda e Antonietta Mudu maritata Batzella. Precisamente Antonietta sposò Battista Batzella (padre di Armando Batzella) e da questo matrimonio nacquero Silvio e Benigna Batzella. Ecco che Benigno Mudu divise la casa in due trasmettendo il bene alle figlie con il dovere di impegnarsi per la riparazione dello stabile. Nel 1909 muore Antonietta e si crearono divergenze tra i familiari per la gestione mentre la chiesa andò in decadenza.
Maria Mudu decise così di trasmettere la quota ai nipoti e questo portò alla stesura del rogito a favore del nipote Silvio Batzella che riuscì ad ottenere l'autorizzazione per la demolizione e ricostruzione dello stabile. Tutto ciò spiega perchè la chiesa sia oggi di proprietà degli eredi Batzella. Si decise, compatibilmente con il permesso rilasciato dalla Sovrintendenza ai Monumenti e Gallerie del 28 marzo 1973, alla demolizione dell’antica struttura considerata di scarsa rilevanza storica e artistica. Successivamente il sindaco di Nuraminis concesse il prioprio nullaosta autorizzando Benigna Batzella. Nel dicembre 1973 viene firmata la scrittura privata fra il generale Silvio Batzella e la ditta appaltatrice Mandis Luigi.
I lavori iniziarono nel 1974 e la chiesa, ricostruita, si presenta oggi completamente rinnovata e abbellita nella parte frontale mediante l’innalzamento di un loggiato. Il rifacimento comprende inoltre la messa in opera di una nuova pavimentazione e di un altare marmorei. La chiesa risulta dotata di paramenti sacri e arredi liturgici indispensabili per le funzioni religiose ancora oggi officiate, tra cui, la statua lignea di S.Antonio abate.
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Facciata e campanile della Chiesa di San Pietro La facciata della chiesa di San Pietro è rivolta verso nord con singolo ingresso centrale a cui si accede attraverso una gradinata in granito di forma semicircolare. Nel primo gradino in alto è presente un’iscrizione che recita “VICARIO V. SADDI 1891”. L’iscrizione vuole ricordare il committente dell’opera, il parroco Vincenzo Saddi.
La facciata venne terminata nella prima metà del XVII secolo dai costruttori Giovanni Antonio Pinna e Giuliano Taris. I due artisti impressero all’opera uno stile tardo-gotico di origine iberica caratterizzato dagli elementi propri dello stile tipico della Sardegna meridionale. Si può quindi affermare che si tratta di un gotico sardo. È inoltre forte la commistione con elementi classicheggianti.
La parete muraria è in pietra arenaria e presenta un terminale piatto sormontato da sei elementi merlati e da una croce centrale.
Il portale è di materiale ligneo, a doppia anta e chiuso fra due colonne in struttura murale scanalata. Sulle colonne, dove poggiano due capitelli in stile composito corinzio, si regge l’architrave di pietra. Sopra il portale poggia una nicchia classicheggiante che ospita una statua di San Pietro, posta nel 1952 in sostituzione della precedente, andata distrutta per una caduta.
La facciata anticamente era abbellita da un rosone aragonese, andato distrutto nei primi del ‘900 in favore di una finestra lucifera, a sua volta demolita per permettere un tentativo di ripristino del precedente rosone. Tale restauro non andò a buon fine, infatti oggi è presente un’ampia finestra circolare decorata con una vetrata che ritrae la scena, tratta dal vangelo di Giovanni, nella quale Gesù ordina all’Apostolo Pietro: “Pasci le mie pecorelle”.
Nel piazzale dirimpetto alla chiesa, e poco distante dall’edificio stesso, è presente una struttura quadrangolare in pietra che sostiene una colonna su cui a sua volta è fissata una croce di ferro.
A sinistra della facciata si erge il campanile a canna quadrata, la cui sommità è ornata da un cornicione decorato con metope traforate a motivi gotici.
La costruzione e il suo stile ricordano notevolmente il campanile della chiesa di San Giacomo situata a Cagliari. Tale somiglianza potrebbe derivare da molteplici fattori. Per prima cosa è possibile che circolassero le medesime maestranze in molte zone della Sardegna meridionale. Inoltre, non è da escludere che tali professionisti potessero avere la loro bottega proprio a Cagliari.
Aspetto sicuramente non secondario potrebbe riguardare il culto di San Giacomo con le sue implicazioni politiche e religiose. Nel ‘500 e nel ‘600 ci furono accese dispute riguardanti San Giacomo che coinvolsero varie realtà politiche e religiose del Regno di Sardegna. Gli intellettuali e gli ecclesiastici del Regno rivendicavano con orgoglio il primato del presunto passaggio in Sardegna di San Giacomo prima che l’Apostolo raggiungesse la penisola iberica. In tale contesto si inserì la disputa interna tra Cagliari e Sassari. Mentre la fazione filo-cagliaritana, rivendicando il primato del passaggio di San Giacomo, sottolineava nettamente il suo sbarco in città, la fazione filo-sassarese ometteva sempre questo dettaglio, riferendosi al suo arrivo nell’isola senza specificare il luogo preciso. Tali polemiche si inserirono perfettamente e contestualmente all’interno del conflitto in corso tra Cagliari e Sassari, riguardante il primato delle Diocesi e delle città stesse all’interno del Regno. È dunque ipotizzabile che imitare stilisticamente il campanile della chiesa cagliaritana di San Giacomo fosse una presa di posizione a favore della fazione cittadina.
Nel novembre del 1837 un fulmine colpì il campanile, arrecando seri danni alla struttura e alla facciata della chiesa. Si rese necessario un intervento di restauro e rifacimento repentino, in modo tale da evitare ulteriori problemi alle strutture. L’opera di restauro si concluse già nel gennaio 1838, al costo della rilevante somma di 1127.10 Lire. Il costo elevato che richiese l’operazione fece nascere una disputa sul pagamento tra le varie parti in causa. Il Reggente la Regia Segreteria di Stato e di Guerra sostenne la linea dell’Intendente del Monte di Riscatto, secondo cui il pagamento non dovesse gravare sulle casse dell’azienda del Monte ma fosse responsabilità dell’amministratore delle Chiese Camerali della Mitra di Cagliari.
Nel 1912, durante ulteriori lavori di restauro, venne rimossa dal campanile una struttura piramidale lignea, che ne sormontava la sommità, perché ritenuta instabile. Inoltre, vennero realizzati dei gradini esterni per accedere alla torre e murato l’ingresso interno utilizzato precedentemente, situato nella Cappella delle Anime.
Tra i conci della muratura frontale della torre campanaria, sono stati individuati dei materiali di recupero, tra cui una lastra divisa verticalmente in due quadranti, con un’iscrizione in lingua latina nella parte sinistra. Dalla cella campanaria (contenente quattro campane) si aprono, sui lati del campanile, delle monofore ad arco a tutto sesto.
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Vecchio Montegranatico L'edificio del vecchio Monte Frumentario ("Su Monti", per i nuraminesi) è una struttura rettangolare a sezione allungata addossata alla Chiesa di San Pietro. Si tratta di un impianto sobrio e funzionale risalente al XVIII secolo, che ha ospitato il Monte frumentario fino almeno al 1900, anno di progettazione del nuovo "magazzino", da individuarsi nella struttura collocata sull'altro lato della parrocchia, ma separato da essa.
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Altare maggiore di San Vito L’altare maggiore venne montato all’inizio del XVIII secolo in occasione dell’ammodernamento generale degli arredi della chiesa. Coerentemente con l’acquasantiera e il pulpito marmorei, rispettivamente nella prima cappella a destra sottostante il campanile il primo e addossato sul fianco sinistro della navata il secondo, infatti, si richiese l’intervento dei marmorari Pietro Malcione e Alessandro Frediani, liguri, per la messa in opera del nuovo altare in sostituzione di un precedente altare ligneo. I loro nomi risultano da un documento del 1714 per il pagamento dei lavori del pulpito, databile quindi al 1715 come testimonia l’epigrafe incisa sulla modanatura della base. L’altare, di poco precedente, risponde agli stessi caratteri stilistici. Finemente decorato a intarsi policromi, le lastre frontali, di pregevolissima fattura, riportano motivi fitomorfi a girali, decorazione ripresa nei sopragradi accanto al tabernacolo; nel paliotto centrale, per il quale son registrati gli interventi dello scultore Gerardo da Novi e dello stesso Frediani, è rappresentata, all’interno di un clipeo, la fuga in barca di san Vito. Piuttosto precoce all’interno del panorama artistico sardo, l’altare, riferito dall’iscrizione sulla base al 1711, si deve alla commissione del “curato Piras”; il medesimo è citato, evidentemente come committente generale dei lavori, nell’epigrafe del pulpito ad opera dei suddetti operatori liguri.