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Altare maggiore di San Vito L’altare maggiore venne montato all’inizio del XVIII secolo in occasione dell’ammodernamento generale degli arredi della chiesa. Coerentemente con l’acquasantiera e il pulpito marmorei, rispettivamente nella prima cappella a destra sottostante il campanile il primo e addossato sul fianco sinistro della navata il secondo, infatti, si richiese l’intervento dei marmorari Pietro Malcione e Alessandro Frediani, liguri, per la messa in opera del nuovo altare in sostituzione di un precedente altare ligneo. I loro nomi risultano da un documento del 1714 per il pagamento dei lavori del pulpito, databile quindi al 1715 come testimonia l’epigrafe incisa sulla modanatura della base. L’altare, di poco precedente, risponde agli stessi caratteri stilistici. Finemente decorato a intarsi policromi, le lastre frontali, di pregevolissima fattura, riportano motivi fitomorfi a girali, decorazione ripresa nei sopragradi accanto al tabernacolo; nel paliotto centrale, per il quale son registrati gli interventi dello scultore Gerardo da Novi e dello stesso Frediani, è rappresentata, all’interno di un clipeo, la fuga in barca di san Vito. Piuttosto precoce all’interno del panorama artistico sardo, l’altare, riferito dall’iscrizione sulla base al 1711, si deve alla commissione del “curato Piras”; il medesimo è citato, evidentemente come committente generale dei lavori, nell’epigrafe del pulpito ad opera dei suddetti operatori liguri.
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Cappella del sacro Cuore All’interno della chiesa parrocchiale di San Pietro, ai lati della navata centrale, si aprono otto cappelle. La terza a sinistra, di perimetro quadrangolare, è dedicata al Sacro Cuore e conserva sei statuette: la Vergine Maria e San Lussorio, rispettivamente lungo le pareti sinistra e destra; al centro, sopra l’altare, il Cristo con accanto, a sinistra, sant’Ignazio e, a destra, sant’Antonio. La statua del Cristo è rappresentata con vesti d’oro e un manto rosso e, esposta dopo la Pentecoste, rimane in vista per tutto il mese di giugno.
Di interessante lavorazione è la statua rappresentante San Lussorio martire: con vesti militari di stampo spagnoleggiante – gonnellino celeste, armatura e mantellina rossa - , tiene, nella mano sinistra, un libro e, nell’altra, la palma del martirio ed è affiancato da due simulacri simboleggianti i santi Cesello e Camerino, anch’essi con la palma. Entrambi tengono un piccolo libro aperto con su scritti i loro nomi.
L’altare in marmo, datato al 1848, presenta una lavorazione molto ricca con, frontalmente, un motivo decorativo fogliforme bianco e rosso e, sulla parte sottostante, una lastra rosacea e un medaglione circolare decorato con una croce greca bianca e quattro raggi gialli. È l’unico altare della chiesa a essere dotato di un tabernacolo al cui ridosso si apre la nicchia del Sacro Cuore e, sulla cui sommità, appare chiaramente lo stemma pontificale delle due chiavi.
Sia l’altare che i marmi sono stati oggetti di un restauro, a opera della Sovrintendenza dei Beni culturali, nel 2002.
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Fonte battesimale di San Vito Fonte battesimale collocato nella cappella sottostante il campanile, coerente con l'impianto dei restanti arredi marmorei settecenteschi.
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Chiesa di San Costantino
Nell’area in cui oggi si trova il moderno cimitero della frazione di Villagreca, si trovava una più antica area cimiteriale, sviluppatasi intorno a una chiesetta dedicata a San Costantino imperatore.
Il toponimo di San Costantino si conserva nella denominazione della campagna in cui sorge il cimitero e nella strada che collega Nuraminis e Villagreca
Il nome ricorre, inoltre, in un fiumicello che bagnava la zona: Su riu de Santu Antini.
Più fonti paesane ricordano nella zona una sorgente d’acqua potabile, che si raccoglieva in una fonte perenne (banadroxu) e fluiva in un fiumiciattolo che attraversava la strada allora sterrata. Accanto alla fonte si ergeva una pianta d’olivo millenaria e due alte palme che ombreggiavano la zona. Oggi via San Costantino è asfaltata e non rimane né delle piante né della fontana, ma secondo l’anziano sig. Medda la sorgente d’acqua continua ad esistere sotto terra.
Molti paesani ricordano la presenza dei ruderi della chiesa di San Costantino. Alcune pareti diroccate e prive di tetto, sopravvissute fino agli anni ‘60 circa, quando la struttura fu demolita per permettere l’ampliamento del cimitero.
Queste memorie sono supportate da una mappa catastale del 1907, nella quale compare il segno cartografico dell’edificio sacro accanto all’area cimiteriale, e da una foto aerea datata 1954/1955, in cui è visibile una struttura adiacente ad un sagrato.
Grazie alla testimonianza di sig. Medda possiamo, inoltre, avere un’idea della struttura dell’edificio, la quale doveva presentarsi come una tipica chiesetta rurale in pietra arenaria, senza campanile. Gli ingressi erano due: l’entrata principale ad arco a tutto sesto, sormontata da un rosone, e una porticina laterale lignea. Quest’ultima, secondo sig. Quirino, sarebbe quella attualmente collocata nella sacrestia della chiesa di San Vito.
Il tetto a due spioventi era costruito similmente a quello della chiesa di San Lussorio di Nuraminis. Il sagrato si estendeva davanti alla chiesetta ed era delimitato da muretti a secco dall’andamento a tratti rettilineo e curvilineo (come si evince anche dalla foto aerea).
Il sagrato si apriva su via San Costantino, con un cancello d’ingresso ligneo sormontato da una tettoia incannizzada, oggi sostituito da quello moderno.
Un’altra testimonianza del culto di san Costantino sono i quattro frammenti marmorei del ciborio, datati al X secolo, in uno dei quali compare in nome di Costantino Magno.
Questi frammenti sono stati rinvenuti come materiale di reimpiego nella parrocchia di San Pietro di Nuraminis, ma con tutta probabilità appartenevano all’antica chiesetta villagrechese.
Si ha notizia, inoltre, della figura dell’eremitano di San Costantino, un laico che vestiva il saio e curava la chiesa come un sacrista. In particolare le fonti menzionano l’eremitano Jorge Zuddas, che alla sua morte nel 1678 fu sepolto gratuitamente dentro la chiesetta.
Nel campo che si estendeva a nord del complesso veniva celebrata la festa paesana, ricordata negli appunti del defunto sacrista Ernesto Zonca come una festa tanto solenne quanto quella patronale. Le celebrazioni liturgiche avevano luogo il 29 agosto, dopo tre giorni di preghiere; la statua del Santo veniva portata in processione per il paese e intorno alla chiesetta, al suono delle campane, delle launeddas e dei petardi. La festa proseguiva la sera con balli sardi, canti e mottetti, nel piazzale gremito di bancarelle. Infine, l’evento più importante era la corsa dei cavalli (s’ardia).
Queste festività e la frequentazione della chiesa sarebbero entrate in disuso già nel 1800, quando la zona era ormai adibita esclusivamente a cimitero.
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Cappella della Madonna di Bonaria La seconda cappella a destra, stando davanti all'altare maggiore, della chiesa parrocchiale di Nuraminis prende il nome di «Cappella di Bonaria». A livello architettonico è caratterizzata da una volta a botte; al centro della cappella è collocato un altare in marmo bianco con intarsi policromi; la struttura è sopraelevata rispetto al piano del basamento nel cui gradino è scolpito l’anno d’impianto (1830). Nel compartimento vi è un dipinto che raffigura un mare in tempesta sul quale si eleva la lucente visione della Madonna di Bonaria. Nella parte centrale dell’altare è scolpito un medaglione circolare, raffigurante una corona di rose attorno ad una palma.
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Chiesa parrocchiale di San Pietro La chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo in Nuraminis si trova al centro del paese, in una posizione alta che sovrasta il circondario.
La prima attestazione riguardante una chiesa dedicata all’Apostolo nell’area di Nuraminis è databile al XII secolo. È ipotizzabile ricondurre l’attestazione all’opera dei monaci di San Vittore di Marsiglia, impegnati, nel corso del Medioevo, nella fondazione di numerose chiese dedicate a San Pietro in Sardegna. Per giungere a tale riflessione è stata fondamentale la lettura dei testi di Alberto Boscolo e Raimondo Turtas, indicati in bibliografia.
L’edificio attuale fu realizzato però, attraverso varie fasi di ampliamento e restauro, a partire dal XVI secolo.
La chiesa è situata all’interno della diocesi di Cagliari: tale è stata la sua collocazione anche durante il Medioevo e per tutta l’Età Moderna.
A livello strutturale la pianta è a croce latina, con un’unica navata centrale da cui si aprono quattro cappelle per lato e un profondo presbiterio. A destra e a sinistra del presbiterio si trovano due sacrestie. Al lato sinistro della facciata si erge il campanile.
Dal punto di vista architettonico lo stile prevalente è quello di impronta tardo-gotica di origine iberica con le peculiari caratteristiche stilistiche tipiche della Sardegna meridionale. Si può affermare quindi che lo stile predominate è il gotico sardo. Influssi stilistici successivi sono ben visibili sia all’interno che all’esterno dell’edificio.
Il 29 giugno il paese festeggia il suo patrono, San Pietro Apostolo. La festività prevede, almeno dal XIX secolo, anche celebrazioni civili.
La popolazione, per distinguerla dalle altre presenti sul territorio, identifica la chiesa di San Pietro come "sa cresia manna". Tale dato è emerso nel corso del dialogo con la popolazione locale.
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Campanile di San Vito a Villagreca La torre campanaria, a canna quadrata, appare esternamente divisa in due ordini scanditi da una cornice marcapiano. Dalla cella campanaria si aprono finestre ad un’unica luce a tutto sesto e coronamento pieno merlato da cui parte un tamburo ottagonale su cui poggia una piccola cupola.
L'ordine inferiore presenta due luci, una circolare di piccolo formato, e una feritoia; più in alto è posizionato il quadrante dell'orologio.
L'ordine superiore, innesto settecentesco, ospita le cinque campane della chiesa, due delle quali commissionate al maestro campanaro Raphael Scarpinato, la prima tra il 1719 e il 1720 e la seconda nel 1728.
Il maestro fu pagato in diverse date:
- per la prima campana si registrano 375 lire l’8 luglio 1719.
- tra il 6 e il 12 settembre tre pagamenti di 90 lire, 15 soldi e 177 lire, per la fine dei lavori della campana.
- 245 lire e 5 soldi per una nuova campana il 14 maggio del 1722.
Per quel che concerne l’antico orologio da torre di tipo medievale, venne realizzato alla fine del XV secolo in Inghilterra da una bottega che utilizzava materiali in ferro battuto per la costruzione delle strutture portanti dei ruotini. La tipologia di montaggio utilizzata si può rapportare a quella utilizzata dal famoso disegnatore e costruttore del Big Ben di Londra Edmund Denison.
L’acquisto avvenne successivamente nel 1882 per 70 lire, quando fu portato a Villagreca per volontà del rettore della stessa, Giuseppe Maria Serci, il quale sostenne l’onere finanziario insieme a un piccolo contributo della popolazione locale.
Nel 1996 furono eseguiti lavori di restauro del campanile che necessitavano di una impalcatura, così l’orologio, ormai fermo da tempo, venne smontato e restaurato dall’ingegnere Vincenzo D’Agostino, che, a lavori ultimati, elaborò un’accurata relazione storico-tecnica.
Quando si decise di controllare l’orologio per un eventuale riparazione, questo si trovava in un piccolo vano in muratura con una piccola porta in legno, che bloccava in parte l’arcata est del campanile.
Il dispositivo non era più funzionante poiché la struttura risultava danneggiata dalla combinazione corrosiva di lubrificante a base di olio vegetale cotto e polvere e escrementi di volatili.
Completano la torre campanaria le ricche decorazioni dell'ordine superiore, che proseguono sul tamburo ottagonale sul quale imposta il cupolino semisferico. La torre risulta essere un intervento costruttivo più tardo, elevata tra il 1718 e il 1720, anni in cui sono registrati alcuni pagamenti al maestro Salvador Angel Garruchu per un totale di 1950 lire, come da documentazione archivistica.
Il maestro realizzò anche la sottostante Cappella delle Anime.
Le decorazioni a rilievo incastonate nel campanile rimandano allo stile architettonico torinese, giunto in Sardegna negli ultimi decenni del XVIII secolo.
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Palazzo municipale di Nuraminis Il comune di Nuraminis ha sede nella casa municipale, in una costruzione a circa 300 metri da piazza San Pietro.
Nel 1854 il Comune aveva provato a varare la costruzione della nuova casa comunale, inizialmente l’area scelta fu quella di piazza Funtana Manna, ma il comune fu costretto a rinunciare all’acquisto, in quanto la proprietaria, Luigina Batzella, pretendeva un pagamento maggiore rispetto a quello che stabilito dalla perizia giurata dei muratori incaricati dal comune. Nello stesso anno si conclusero le trattative con un uomo di nome Stanislao Sarais.
Nel 1858 fu approvato il progetto stilato dall’architetto Perria, da quel momento il comune si impegnò a reperire i fondi per la costruzione, prima ricevette in prestito una somma dalla commissione montuaria, che comunque non copriva l’intera somma. L’ammontare delle spese venne garantito solo nel 1859 sommando diversi fondi.
Nella seduta del luglio 1861 il comune si impegnò ufficialmente nella costruzione dell’immobile e allo stesso tempo nella cessione della vecchia sede comunale all’azienda mortuaria che lo riceveva, previa riparazione, senza dover alcun’altra somma oltre quella già posta in prestito. Nel 1863 furono approvate le correzioni apportate dell’ing. Giovanni Onnis al progetto della casa comunale per l’aumento di alcuni vani necessari alla giudicatura mandamentale, alla cancelleria di pretura, alle carceri etc. I lavori furono dati in appalto all’impresario Giovanni Battista Melis e furono completati nel 1864, anno dell’inaugurazione. Mentre nel 1865 furono commissionati al pittore Battista Cancedda gli affreschi della sala della giudicatura e del consiglio comunale.
A causa di un errore tecnico nella costruzione del ponte di attraversamento della strada Carlo Felice, nelle giornate molto piovose la piazza antistante il palazzo si riempiva d’acqua proveniente dal ruscello. Il consiglio comunale provò a chiedere l’intervento dell’autorità governativa il 5 luglio 1865 ma dopo due anni fu costretto ad agire in autonomia, e affidò quindi il progetto all’ingegner Giovanni Melis.
Il nuovo palazzo municipale sarà sede di vari servizi e uffici: al primo piano, ospita gli uffici del sindaco, di consiglieri e funzionari municipali, la giudicatura, le carceri mandamentali e la caserma per i carabinieri reali. Al pian terreno, troveranno invece spazio le scuole femminile e maschile, con l’alloggio per la maestra e per l’usciere; due stanze, una per l’esattore e l’altra per il commissario delle esazioni e una piccola caserma per la guardia nazionale. Con un'unica importante costruzione il comune da alloggio a tanti servizi importanti, e può vantare di essere all’avanguardia rispetto a molti altri comuni.
La costruzione del palazzo municipale si inserisce perfettamente in quella che sono le dinamiche sociali del paese, per volere dell’élites paesane si da un forte simbolo di modernizzazione, che viene posto in una zona fino ad allora considerata periferica.
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Statua lignea di San Vito Martire La statua lignea raffigura il santo patrono della parrocchia: San Vito martire. Il culto del santo sembra essere legato alle antiche origini greche della comunità Villagreca .
La statua del martire è collocata all'interno del nicchione centrale del retablo omonimo.
La collocazione del simulacro in origine era però un’altra: proviene verosimilmente dalla perduta chiesa di San Costantino.
La statua si trova stante sul piedistallo e regge con la mano destra la croce e con la sinistra la palma del martirio.
Il vestiario suggerisce una tendenza innovatrice da parte dello scultore. Infatti, il Santo non indossa vesti da gentile romano come da tradizione iconografica, ma abiti di moda secentesca. Inoltre, si può supporre che presentasse in origine la tipica decorazione ad estofado de oro.
Attraverso la consultazione di un Inventario della parrocchia redatto fra il 1916 e il 1935, è possibile risalire all’artista che ha realizzato la scultura: «San Vito martire, all’Altare maggiore, con testa che si attribuisce al […] Lonis». La scultura, nello specifico la testa, può essere così attribuita a Giuseppe Antonio Lonis, celebre scultore attivo in Sardegna nel secondo Settecento.
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Acquasantiera di San Costantino Nata dal reimpiego di elementi architettonici della distrutta chiesa di San Costantino, l'acquasantiera sembra ottenuta dall'assemblaggio moderno di un catino, decorato esternamente con bacellature verticali e fregio pisciforme nella parte concava, e di un pilastrino seicentesco ornato a onde, bande e strigliature di gusto arcaicizzante.
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Pulpito marmoreo di San Vito Il pulpito di semplice struttura poligonale sorretta da colonna è decorato con tarsie policrome a motivi fitomorfi. Incastonato al centro della lastra frontale si trova un clipeo in marmo bianco recante l'effige di San Vito su un nimbo, in abiti da gentile romano.
Il pulpito, così come l'altare, è opera attestata dei marmorari Pedro Malcioni e Aleandro Frediani, come ci comunica l'epigrafe lungo la modanatura "HOC SVGESTV EXTRVI: FECIT R.A. CNO.ATO D PIRAS.NO 1715" fu terminato e installato nel 1715.
Colpisce per la sua finezza il sontuoso tornavoce barocco intagliato da Tomaso Recupo, ornato da volute, fiori e festoni, dorato nello stesso anno da Sisinnio Lay.
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Retablo di San Vito Il retablo, grande macchina lignea barocca, è posizionato sul fondo del presbiterio, in area absidale, ed insiste sul settecentesco altare marmoreo.
È parte integrante dell'altare maggiore della chiesa. Riccamente decorato con motivi fitomorfi, è suddiviso in tre scomparti scanditi da colonnine modanate con capitelli compositi; la trabeazione è sormontata da una cornice fortemente aggettante che separa l'ordine inferiore dal fastigio sovrastante.
Termina la parte sommitale il frontone spezzato tra volute a “S”, che incornicia visivamente, in posizione retrostante, una piccola edicola timpanata. La nicchia centrale, coperta con volta cassettonata a rosette, ospita il simulacro del Santo proveniente dalla distrutta chiesa di San Costantino.
I due scomparti laterali, coerentemente con la lunetta del fastigio, contenevano verosimilmente le pale pittoriche oggi perdute e sostituite da pannelli riempitivi. La superficie del retablo, interamente intagliato e dorato, presenta uno strato pittorico omogeneo di colore verde con lumeggiature color oro; completano la decorazione teste di putti e festoni.
Ancora conservata è l’iscrizione AÑO 1759 A 27 DE 7BRE PRIOR + ANTONIO BONFIL CL(AVERO) PEDRU PORCEDDU CURAVIT ZONQUELLO, che ci permette di datare precisamente l’opera.
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Volta affrescata chiesa di San Vito Affresco
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Lettiga dell'Assunta Manufatto
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Chiesa parrocchiale di San Vito La chiesa parrocchiale di Villagreca, intitolata a San Vito, venne eretta decentrata rispetto al primo nucleo del paese; in seguito, venne incorporata al centro dell’attuale agglomerato. Non è possibile poter stabilire la data precisa di costruzione, in quanto non sono state eseguite campagne di scavo relative alla stratigrafia più antica. L’edificio si presenta imponente soprattutto in relazione al piccolo centro di Villagreca. Secondo Marcello Schirru, docente universitario, tale struttura venne realizzata sotto la direzione dell’arcivescovado, dati i lavori realizzati seguendo la moda architettonica contemporanea e un investimento di tale portata.
Gli storici dell’arte datano la parte più antica agli ultimi decenni del XVI secolo in base agli elementi strutturali e decorativi caratteristici dell’età tardogotica del meridione sardo.
Edificata in stile sardo-catalano, presenta un andamento longitudinale mononavato, diviso in tre campate da due archi a diaframma ogivale. L’iconografia della chiesa rivela le diverse fasi costruttive. Il presbiterio e le due campate adiacenti possono essere ricondotti all’impianto architettonico originario, il quale fu introdotto in Sardegna alla fine del XIII dagli ordini regolari, modello che perdurerà per quasi cinque secoli.
La zona presbiteriale, introdotta da un arco sorretto da capitelli fitomorfi, presenta pianta quadrangolare coperta con volta stellare a liernes e tiercerons, adornate da cinque gemme pendule. Tra queste la centrale, più grande delle altre, presenta nell’incavo l’effige di San Vito. Nelle altre gemme vi sono scolpiti elementi vegetali.
I costoloni degli archi traversi e i quattro archi che generano la volta si appoggiano su peducci, che hanno rappresentati i simboli dei quattro evangelisti, come consuetudine delle fabbriche della seconda metà del Cinquecento. Il disegno stellare, di stampo renano-castigliano, imita analoghi modelli cagliaritani risalenti alla prima metà del cinquecento. Sempre secondo Marcello Schirru, non si può stabilire una corrispondenza cronologica tra la volta stellare e l’impianto planimetrico originale.
Le due capelle voltate a botte nell’ultima campata si possono datare tra l’ultimo decennio del XVI secolo e il terzo del XVII secolo.
La facciata della parrocchia, anch'essa frutto di un rimaneggiamento settecentesco, si presenta a paramento liscio interrotto solo nella parte assiale dal portale, sormontato da un alveolo classicista con catino a conchiglia ospitante una statuina litica, di scarso pregio, raffigurante San Vito e da una finestra rettangolare.
Allineata alla facciata, sul lato destro, troviamo la torre campanaria.
All’inizio del XVIII secolo furono acquistati arredi marmorei, diffusi in quel tempo, i primi in una chiesa parrocchiale (in precedenza erano presenti solo in cattedrali). Tra questi il fonte battesimale datato epigraficamente al 1705 e l’altare con paliotto decorato con tarsie policrome a motivi fitomorfi con clipeo centrale in marmo bianco, rappresentante la fuga di San Vito in barca.
Sono presenti anche alcuni arredi liturgici, come i candelieri in legno dorato databili al Seicento (che sembrano ricordare i bandoni d'argento del Duomo di Cagliari), il crocifisso doloroso e la lettiga dell’Assunta.
Sull’altare marmoreo del presbiterio è presente un retablo con decorazioni fitomorfe e nella nicchia troviamo un’immagine di San Vito, proveniente dalla Chiesa di San Costantino. Da qui proviene anche un’acquasantiera.
In una nicchia laterale troviamo la statua di San Raffaele con Tobiolo.
Possiamo trovare anche oggetti d’argento che furono acquistati tra il Seicento e il Settecento, tra questi: una lampada, un secchiello per l’acqua benedetta, un turibolo e la navicella porta incenso, un calice, una pisside e i sandali dell’Assunta. Tali arredi preziosi furono realizzati da cesellatori cagliaritani: Salvatore Cosseddu, Giuseppe Lampis e altri maestri genovesi. Questo patrimonio artistico è senza ombra di dubbio un’evidente prova che il paese di Villagreca nel passato abbia avuto un certo rilievo economico e fosse ben collegato con le maestranze del territorio circostante.
In base alla documentazione disponibile presso gli archivi della Soprintendenza ai Monumenti di Cagliari, sappiamo che nel 1901 venne effettuato il primo restauro della chiesa, in seguito alla richiesta dell’allora parroco che chiese si intervenisse urgentemente per restaurare il campanile, la volta e il pavimento, per una cifra complessiva di 922,50 lire.
Un altro restauro documentato risale al 1954, successivo a una perizia della sovrintendenza di Cagliari del 12 novembre, che autorizza lavori sul campanile e la sostituzione del quadrante dell’orologio.
Dalla documentazione parrocchiale invece, risaliamo ad altri lavori eseguiti nel 1965 con cui si abbassò il pavimento del sagrato. Un altro intervento si ha nel 1974, lavori soprattutto di manutenzione.
L’ultimo restauro della chiesa parrocchiale si è concluso nel 2005, fu incisivo dal punto di vista dell’aspetto esteriore delle superfici, mentre quelle precedenti si sono maggiormente concentrate nel consolidamento delle varie strutture, nella copertura per le continue infiltrazioni piovane e nel realizzare un efficiente isolamento della pavimentazione, necessario a causa dell’umidità proveniente dalle fondamenta.
Negli ultimi dieci anni si è intervenuti con diversi cantieri:
• nel 1995 si portò a riparazione completa il campanile in cui erano stati evidenziati gravi problemi statici.
• Nel 1997,1999 e nel 2001 la regione Sardegna stanziò i fondi per un restauro completo di tutta la chiesa: intervento sugli intonaci, pulizia delle superfici marmoree, rinforzo delle mura con iniezioni di malta fluida, nuovi impianti elettrici e infine l’adeguamento del presbiterio alle nuove norme liturgiche dettate dal Concilio vaticano II.
• Tra il 2003 e il 2005 si è reso necessario intervenire sulla pavimentazione, con grande contrarietà della popolazione locale.
L’intervento sul presbiterio è stato quello più controverso e difficile perché comportava l’introduzione di nuovi elementi necessari per la liturgia in una struttura storica che risale alla fine del XVI secolo.
Venne inserita la bussola all’ingresso per compensare gli sbalzi di temperatura causati dall’apertura della porta. Questa struttura è stata realizzata in legno con pannelli di un azzurro chiaro con le cornici dorate, i quali non stonano con il resto degli arredi.
Grazie a un finanziamento del comune di Nuraminis, sono stati recentemente eseguiti lavori sul sagrato che però non possono essere considerati definitivi vista l’esiguità dei fondi stanziati.
Sorge spontaneo chiedersi per quale motivo la chiesa venne intitolata a San Vito, santo appartenente alla tradizione della Chiesa d’Oriente.
Occorre partire dall’origine del nome dell’abitato di Villagreca, di cui troviamo menzione nel “La Marmora” nel 1917 <<…Villagreca, così detta da una colonia di Greci che vi si fondò…>>
Per quanto riguarda l’epoca romana, non disponiamo di documenti che attestino la presenza dell’abitato, né possiamo pensare all’arrivo di una colonia di greci durante la dominazione spagnola perché il governo non consentì tale pratica agli stranieri.
Tuttavia, in alcuni diplomi del 1337 troviamo già il nome di Villagreca, per cui ne consegue che il paese esisteva già prima dell’arrivo degli Aragonesi.
Il termine villa ci riporta al latino, con cui si intendeva un podere rustico di piccole dimensioni, abitato da padroni e servi con relative famiglie.
Armando Batzella, avvocato di Nuraminis appassionato di storia locale, ipotizza che l’abitato sia stato fondato in una data imprecisata dell’VIII secolo D.C., quando iniziarono le persecuzioni religiose, messe in atto da Leone l’Isaurico e dai suoi successori contro l’iconoclastia e l’uso dei quadri e infine contro i monaci, ritenuti responsabili di tali pratiche.
L’imperatore Costantino ordinò di eliminare tutti i simulacri e iniziò a perseguire i monaci affinché fossero ridotti in miseria e abbandonassero l’abito. Furono messe in atto torture di vario genere e per chi non rispettava i divieti era prevista anche la morte. In tale contesto molti monaci fuggirono dall’Oriente e alcuni si stanziarono in Sardegna, dove era presente una tradizione di usi bizantini risalente alla dominazione imperiale durata cinque secoli nell’isola.
Tra questi c’erano i monaci studiti, i quali fondarono monasteri che seguivano la regola di San Basilio. Nei dintorni di questi monasteri si svilupparono piccoli agglomerati che poi divennero delle ville e una di queste prese il nome di villa dei greci, da cui Villagreca.
Le prime attestazioni sicure sono successive al XIII secolo, quando la villa apparteneva al Giudicato di Cagliari e alla curatoria di Nuraminis, prima della conquista aragonese. I monaci diffusero ovviamente pratiche e culti greci nei territori in cui si stanziarono.
Nelle chiese di Nuraminis, Villasor, Donori e Assemini sono presenti chiese con targhe votive scritte in greco. Queste pratiche sono state in seguito soppiantate dalla Chiesa di Roma, ma rimasero in uso a Villagreca.
Il patrono dell’agglomerato è San Vito, mentre la vecchia chiesa dove oggi si trova il cimitero era intitolata a San Costantino. Entrambi appartenenti al culto greco e considerati santi dalla tradizione della chiesa d’Oriente.
In particolare, è ancora vivo a Villagreca il culto di San Costantino, mai canonizzato dalla Chiesa cattolica, a dimostrazione del forte legame con la chiesa di Bisanzio.
Inoltre, vicino al paese possiamo trovare una località chiamata San Costantino e un ruscello denominato “Su riu de Santu Antini”.
I monaci coltivavano queste terre e introdussero nuove colture, quali il vitigno del moscato e della malvasia; si dedicarono agli agrumi e agli olivi, importarono un nuovo tipo di melo e soprattutto incentivarono gli alberi da fico che venivano utilizzati sia freschi che secchi da mangiare durante i frequenti digiuni praticati dai monaci studiti.
Nel territorio di Villagreca è presente una località chiamata” Su cungiau de is paras” circondato da ulivi e un tempo pieno di alberi da fico; mentre a un kilometro dal paese si potevano trovare due ulivi millenari di olive da tavola chiamata “oliva di Smirne”, ma ad oggi sono stati distrutti da un incendio doloso.
Tutti questi elementi ci portano a dedurre che in questo territorio i culti trasmessi da tali monaci fossero ben radicati e siano ancora vivi oggi presso la popolazione. Infatti, tuttora nel periodo pasquale è usanza offrire del pane di semola con decorazioni e con delle uova incastonate, pratica che si svolge ancora oggi in Grecia.
Il culto di San Vito si diffuse in tutta Europa in particolare nel medioevo.
Secondo la tradizione il martire nacque a Mazara del Vallo, in Sicilia, da genitori pagani.
Egli appartiene ai quattordici Santi Ausiliatori, così chiamati perché proteggevano gli abitanti di una città da qualsiasi pericolo.
Il giovane Vito, rimasto orfano di madre, fu affidato alla nutrice Crescenza e in seguito al pedagogo Modesto, i quali lo educarono alla fede Cristiana. Sin dalla tenera età iniziò a compiere piccoli prodigi.
Quando l’imperatore Diocleziano iniziò le persecuzioni contro i cristiani, il padre di Vito cercò di persuaderlo all’abiura, non riuscendoci lo denunciò al preside locale per farlo arrestare, ma la prigionia non sortì alcun effetto e venne scarcerato.
Rientrato a casa, il padre cercò allora di farlo sedurre, ma non ottenne l’effetto desiderato.
Il preside tentò di arrestarlo nuovamente, ma il pedagogo Modesto ebbe una visione del Signore in cui gli ordinava di fuggire con una barca insieme a Vito e Crescenza; questi fuggirono e giunsero nel Cilento e poi in Lucania, dove il giovane Vito si distinse nel fare prodigi. Qui fu trovato dalle milizie dell’imperatore, venne arrestato e condotto presso Diocleziano il quale, avendo udito delle sue capacità di guaritore, voleva che guarisse il figlio, malato di epilessia. Vito guarì il giovane, ma si rifiutò di compiere sacrifici agli dèi e l’imperatore dispose che fosse torturato tramite immersione nella pece bollente, da cui però ne uscì illeso.
Da qui il racconto nella tradizione dei Martirologi aggiunge elementi leggendari: secondo un aneddoto Vito sarebbe riuscito a ridurre all’obbedienza dei leoni che avrebbero dovuto sbranarlo all'interno di un'arena; successivamente sarebbe stato appeso insieme a Modesto e Crescenza a un cavalletto per tirare le ossa, ma la terra tremò e tutti fuggirono, compreso l’imperatore. All’improvviso apparvero degli angeli che liberarono i tre prigionieri e li portarono in Lucania, dove morirono per le torture subite.
Il culto di San Vito si diffuse non solo per la sua giovane età (tra i dodici e i diciassette anni), ma per le sue capacità di guaritore della epilessia, della corea (malattia che provoca movimenti incontrollati del corpo da cui il nome “ballo di San Vito”), dell’insonnia, della catalessi e della possessione demoniaca. Divenne anche il protettore dei calderai, ramai e bottai quando si diffuse la notizia che il santo era stato messo in un calderone di pece.
Nel 2002 in seguito a un restauro della pavimentazione della chiesa, sono state trovate sepolture e strutture murarie che vennero analizzate tramite un’indagine archeologica; l’uso delle sepolture interne alle chiese era diffusa nel XVII secolo.
Dal Concilio di Trento e da vari provvedimenti conseguenti la controriforma, l’uso di inumare all’interno delle chiese era permesso a patto che la sepoltura non avvenisse ai piedi dell’altare. Questa pratica prevedeva il versamento di denaro alla parrocchia, necessario per ripristinare la pavimentazione. Ne consegue che solo la popolazione più benestante potesse permettersi di seppellire una persona cara all’interno della chiesa .
Il poco spazio disponibile probabilmente ha portato ad ammucchiare le salme una sopra l’altra senza l’utilizzo di casse e avvolte in un sudario.
I corpi ritrovati nella chiesa di San Vito sono accompagnati da medaglie votive, croci e grani di rosario.
Grazie agli scavi archeologici nella chiesa di San Vito possiamo ricostruire una parte della storia dell’abitato di Villagreca. Tra il XIV e il XVI secolo ci furono carestie ed epidemie in tutta l’isola e molti centri abitati ebbero una contrazione demografica con conseguente spopolamento, come la terribile peste del 1348 che si diffuse in tutta Europa. Nel 1414 d.c. il paese venne ripopolato per ordine dei signori del feudo Sanjust, ai quali nel 1355 era stata assegnata in feudo la “villam vocatam greca” dal sovrano Pietro IV d’Aragona, come possiamo leggere in un documento conservato nell’Archivio della Corona d’Aragona, come ricompensa per il sostegno avuto.
Si ipotizza che il primo abitato si trovasse a 1 km dall’attuale, nei pressi della chiesa bizantina di San Costantino, e venne rifondato, dove si trova attualmente, nella seconda metà del XVI secolo. In base allo studio archeologico sull’interno della chiesa, nella parte oggetto dell’indagine, se ne ipotizza la costruzione ai primi decenni del XVII secolo.
Per quanto riguarda la navata (edificata su un terreno costituito da roccia friabile) e gli spazi funerari, si ipotizza siano stati realizzati nella prima metà del milleseicento, quando furono compilati i Quinque libri, nella sezione "Los Muertos", disponibili per il paese dal 1643 al 1853, dai quali veniamo a conoscenza che i defunti venivano seppelliti sia all’interno che all’esterno della chiesa; purtroppo, del cimitero esterno non abbiamo più nessuna traccia.
Solo dalla seconda metà del XVIII secolo fu utilizzato per le salme il cimitero che si trova nell’area dell’antica chiesa di San Costantino, nonostante il divieto dell’Editto di Saint Cloud emanato da Napoleone agli inizi del 1800; benché la Sardegna non fosse un dominio napoleonico, l’Editto venne messo in atto.
Nel corso dei secoli furono realizzate diverse modifiche dell’edificio; alla fine del Seicento il pavimento, che in origine era stato realizzato in cotto, fu sostituito con lastre di ardesia; agli inizi del Settecento si fecero altre modifiche alla pavimentazione, per costruire le fondamenta per la nuova facciata e per il campanile; questi lavori provocarono però danni ai muri delle aree funebri.
Si ipotizza che forse il pavimento sia stato realizzato in blocchi di calcare forse prelevati dall’antica chiesa di San Costantino. Spesso nel passato si riutilizzavano i materiali degli edifici in rovina poiché c’era scarsità di materie prime per l’edilizia, o era difficile reperirle. Nella chiesa di San Vito si continuò a seppellire i morti sino al 1850, dopo si consolidò l’utilizzo del cimitero nell’area dell’antica chiesa di San Costantino. Nuovamente nel 1901, in occasione di un restauro, metà dei blocchi del pavimento furono sostituiti e forse fu in questo frangente che si rimossero i resti degli ultimi defunti.
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Crocifisso doloroso Scultura
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Statua lignea di Sant'Elena Sant'Elena è rappresentata in piedi su un piedistallo e, come da tradizione medievale, regge con la mano destra la croce.
Le vesti, policromate, sono caratterizzate da decorazioni dorate, probabile imitazione della tecnica decorativa estofado de oro, mentre il capo è coperto da un manto bianco.
La resa anatomica è scarsa, in quanto le mani sono troppo grandi in proporzione al resto del corpo.
La figura è regida, mossa solo da uno scarto in avanti del piede sinistro.
Questi segnali inducono a collocare l'opera nel XVII secolo in ambito di produzione locale.
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Il sito di Segafenu Il sito di Segafenu, storicamente noto come Arruinalis de Segavenu, sorge a 135m s.l.m. nell’area dell’ex stagno di Nuraminis su via Donori, a 3 km a sud-est dal centro abitato. Fino alla metà del 1900 era presente nella zona una fonte d’acqua conosciuta come Sa Mitza de Segafenu, il cui rivolo defluiva in un piccolo fiume nel territorio di Samatzai.
Nel 1997 la Soprintendenza archeologica di Cagliari vi individuò un sito pluristratificato suddiviso in strutture megalitiche, presumibilmente riferibili a un nuraghe complesso, che si articolerebbe anche al di sotto della collinetta artificiale su cui giacciono le rovine.
Al nuraghe faceva capo un abitato, la cui esistenza è testimoniata dal rinvenimento di materiale da costruzione fittile e litico: il materiale fittile risale al calcolitico (III millennio a.C.), al bronzo medio (dal 1600 a.C.), all’età punica e di età romana. I grossi blocchi litici visibili si presentano danneggiati dall’utilizzo dei mezzi agricoli.
Per quanto riguarda le epoche successive, dei diplomi medievali attestano nella curatoria di Nuraminis il villaggio (villa) chiamato Segafè (o Segaffe), che nel 1355 e nel 1358 aveva come signore Pietro de Costa. Nel secolo successivo lo ritroviamo appartenente alla curatoria di Bonavoja, sotto la signoria di Nicolò da Caciano.
Secondo John Day il sito fu presumibilmente abbandonato tra il 1455 e il 1476, in seguito alle gravi guerre, carestie e pestilenze dei decenni precedenti. La località viene menzionata insieme a Sehutas in un processo civile agli inizi del 1500, con il quale don Giovanni Bellit y Aragall rivendicò e ottenne la proprietà dei salti delle due ville distrutte.
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Gruppo ligneo di Tobiolo e l'angelo Il gruppo scultoreo, realizzato con materiali lignei, è collocato nella nicchia laterale alla destra rispetto all’ingresso della parrocchia. Disposto su un modesto basamento ligneo, esso rappresenta l'episodio veterotestamentario dell'incontro fra il giovane Tobia e l'arcangelo Raffaele.
La statua dell’arcangelo Raffaele, che segue i canoni dell’iconografia classica, è attribuita al celebre scultore settecentesco Giuseppe Maria Lonis. L’andamento delle vesti e il leggero scarto laterale del corpo rispetto all’asse donano alla statua un senso di movimento.
Il braccio destro levato verso l'alto suggerisce che la statua in origine reggesse un’asta, oggi andata perduta. La sopravveste indossata dall’Angelo è colorata in azzurro e decorata con fiori dorati. Invece, la sottoveste è decorata con motivi floreali rossi su sfondo bianco. I lineamenti del volto oggi sono resi inespressivi dalla perdita dei bulbi oculari vitrei.
Con il braccio sinistro l’Angelo protegge il piccolo Tobiolo, raffigurato in fattezze semplici e con indosso una veste bianca.
In realtà, Tobiolo è una raffigurazione di San Giovannino, integrato al gruppo scultoreo nella prima metà del Novecento per volontà dell’arcivescovo di Cagliari Ernesto Maria Piovella. L’arcivescovo aveva richiesto, durante una visita pastorale, l’unione delle due statue lignee, pena l’interdizione della statua raffigurante l’Arcangelo. Infatti, in un inventario della parrocchia redatto fra il 1916 e il 1935, le due statue lignee sono segnalate come due sculture distinte e non come gruppo scultoreo.
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Statua lignea di Santa Barbara La statua lignea di Santa Barbara è collocata nel lato sinistro della navata della parrocchia. Il materiale è legno intagliato, policromato e dorato.
La posizione della santa è conforme all’iconografia tradizionale: con la mano destra tiene la palma, mentre con la mano sinistra, protesa verso l’alto, regge la torre. Entrambi gli oggetti sono simbolo del suo martirio.
Santa Barbara porta una veste celeste dai bordi dorati, cinta in vita da una fascia durata. Le mani, troppo grandi, rivelano una scarsa attenzione per l’anatomia da parte dell’artista. Tale sproporzione e altre caratteristiche stilistiche inducono a ricondurre la paternità della statua ad una bottega sarda locale del XVII secolo.
Come diverse altre statue della parrocchia, la presenza della statua viene segnalata nell’Inventario redatto in un periodo circoscritto fra il 1916 e il 1935.