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Chiesa parrocchiale di San Vito
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Chiesa parrocchiale di San Vito
La chiesa parrocchiale di Villagreca, intitolata a San Vito, venne eretta decentrata rispetto al primo nucleo del paese; in seguito, venne incorporata al centro dell’attuale agglomerato. Non è possibile poter stabilire la data precisa di costruzione, in quanto non sono state eseguite campagne di scavo relative alla stratigrafia più antica. L’edificio si presenta imponente soprattutto in relazione al piccolo centro di Villagreca. Secondo Marcello Schirru, docente universitario, tale struttura venne realizzata sotto la direzione dell’arcivescovado, dati i lavori realizzati seguendo la moda architettonica contemporanea e un investimento di tale portata. Gli storici dell’arte datano la parte più antica agli ultimi decenni del XVI secolo in base agli elementi strutturali e decorativi caratteristici dell’età tardogotica del meridione sardo. Edificata in stile sardo-catalano, presenta un andamento longitudinale mononavato, diviso in tre campate da due archi a diaframma ogivale. L’iconografia della chiesa rivela le diverse fasi costruttive. Il presbiterio e le due campate adiacenti possono essere ricondotti all’impianto architettonico originario, il quale fu introdotto in Sardegna alla fine del XIII dagli ordini regolari, modello che perdurerà per quasi cinque secoli. La zona presbiteriale, introdotta da un arco sorretto da capitelli fitomorfi, presenta pianta quadrangolare coperta con volta stellare a liernes e tiercerons, adornate da cinque gemme pendule. Tra queste la centrale, più grande delle altre, presenta nell’incavo l’effige di San Vito. Nelle altre gemme vi sono scolpiti elementi vegetali. I costoloni degli archi traversi e i quattro archi che generano la volta si appoggiano su peducci, che hanno rappresentati i simboli dei quattro evangelisti, come consuetudine delle fabbriche della seconda metà del Cinquecento. Il disegno stellare, di stampo renano-castigliano, imita analoghi modelli cagliaritani risalenti alla prima metà del cinquecento. Sempre secondo Marcello Schirru, non si può stabilire una corrispondenza cronologica tra la volta stellare e l’impianto planimetrico originale. Le due capelle voltate a botte nell’ultima campata si possono datare tra l’ultimo decennio del XVI secolo e il terzo del XVII secolo. La facciata della parrocchia, anch'essa frutto di un rimaneggiamento settecentesco, si presenta a paramento liscio interrotto solo nella parte assiale dal portale, sormontato da un alveolo classicista con catino a conchiglia ospitante una statuina litica, di scarso pregio, raffigurante San Vito e da una finestra rettangolare. Allineata alla facciata, sul lato destro, troviamo la torre campanaria. All’inizio del XVIII secolo furono acquistati arredi marmorei, diffusi in quel tempo, i primi in una chiesa parrocchiale (in precedenza erano presenti solo in cattedrali). Tra questi il fonte battesimale datato epigraficamente al 1705 e l’altare con paliotto decorato con tarsie policrome a motivi fitomorfi con clipeo centrale in marmo bianco, rappresentante la fuga di San Vito in barca. Sono presenti anche alcuni arredi liturgici, come i candelieri in legno dorato databili al Seicento (che sembrano ricordare i bandoni d'argento del Duomo di Cagliari), il crocifisso doloroso e la lettiga dell’Assunta. Sull’altare marmoreo del presbiterio è presente un retablo con decorazioni fitomorfe e nella nicchia troviamo un’immagine di San Vito, proveniente dalla Chiesa di San Costantino. Da qui proviene anche un’acquasantiera. In una nicchia laterale troviamo la statua di San Raffaele con Tobiolo. Possiamo trovare anche oggetti d’argento che furono acquistati tra il Seicento e il Settecento, tra questi: una lampada, un secchiello per l’acqua benedetta, un turibolo e la navicella porta incenso, un calice, una pisside e i sandali dell’Assunta. Tali arredi preziosi furono realizzati da cesellatori cagliaritani: Salvatore Cosseddu, Giuseppe Lampis e altri maestri genovesi. Questo patrimonio artistico è senza ombra di dubbio un’evidente prova che il paese di Villagreca nel passato abbia avuto un certo rilievo economico e fosse ben collegato con le maestranze del territorio circostante. In base alla documentazione disponibile presso gli archivi della Soprintendenza ai Monumenti di Cagliari, sappiamo che nel 1901 venne effettuato il primo restauro della chiesa, in seguito alla richiesta dell’allora parroco che chiese si intervenisse urgentemente per restaurare il campanile, la volta e il pavimento, per una cifra complessiva di 922,50 lire. Un altro restauro documentato risale al 1954, successivo a una perizia della sovrintendenza di Cagliari del 12 novembre, che autorizza lavori sul campanile e la sostituzione del quadrante dell’orologio. Dalla documentazione parrocchiale invece, risaliamo ad altri lavori eseguiti nel 1965 con cui si abbassò il pavimento del sagrato. Un altro intervento si ha nel 1974, lavori soprattutto di manutenzione. L’ultimo restauro della chiesa parrocchiale si è concluso nel 2005, fu incisivo dal punto di vista dell’aspetto esteriore delle superfici, mentre quelle precedenti si sono maggiormente concentrate nel consolidamento delle varie strutture, nella copertura per le continue infiltrazioni piovane e nel realizzare un efficiente isolamento della pavimentazione, necessario a causa dell’umidità proveniente dalle fondamenta. Negli ultimi dieci anni si è intervenuti con diversi cantieri: • nel 1995 si portò a riparazione completa il campanile in cui erano stati evidenziati gravi problemi statici. • Nel 1997,1999 e nel 2001 la regione Sardegna stanziò i fondi per un restauro completo di tutta la chiesa: intervento sugli intonaci, pulizia delle superfici marmoree, rinforzo delle mura con iniezioni di malta fluida, nuovi impianti elettrici e infine l’adeguamento del presbiterio alle nuove norme liturgiche dettate dal Concilio vaticano II. • Tra il 2003 e il 2005 si è reso necessario intervenire sulla pavimentazione, con grande contrarietà della popolazione locale. L’intervento sul presbiterio è stato quello più controverso e difficile perché comportava l’introduzione di nuovi elementi necessari per la liturgia in una struttura storica che risale alla fine del XVI secolo. Venne inserita la bussola all’ingresso per compensare gli sbalzi di temperatura causati dall’apertura della porta. Questa struttura è stata realizzata in legno con pannelli di un azzurro chiaro con le cornici dorate, i quali non stonano con il resto degli arredi. Grazie a un finanziamento del comune di Nuraminis, sono stati recentemente eseguiti lavori sul sagrato che però non possono essere considerati definitivi vista l’esiguità dei fondi stanziati. Sorge spontaneo chiedersi per quale motivo la chiesa venne intitolata a San Vito, santo appartenente alla tradizione della Chiesa d’Oriente. Occorre partire dall’origine del nome dell’abitato di Villagreca, di cui troviamo menzione nel “La Marmora” nel 1917 <<…Villagreca, così detta da una colonia di Greci che vi si fondò…>> Per quanto riguarda l’epoca romana, non disponiamo di documenti che attestino la presenza dell’abitato, né possiamo pensare all’arrivo di una colonia di greci durante la dominazione spagnola perché il governo non consentì tale pratica agli stranieri. Tuttavia, in alcuni diplomi del 1337 troviamo già il nome di Villagreca, per cui ne consegue che il paese esisteva già prima dell’arrivo degli Aragonesi. Il termine villa ci riporta al latino, con cui si intendeva un podere rustico di piccole dimensioni, abitato da padroni e servi con relative famiglie. Armando Batzella, avvocato di Nuraminis appassionato di storia locale, ipotizza che l’abitato sia stato fondato in una data imprecisata dell’VIII secolo D.C., quando iniziarono le persecuzioni religiose, messe in atto da Leone l’Isaurico e dai suoi successori contro l’iconoclastia e l’uso dei quadri e infine contro i monaci, ritenuti responsabili di tali pratiche. L’imperatore Costantino ordinò di eliminare tutti i simulacri e iniziò a perseguire i monaci affinché fossero ridotti in miseria e abbandonassero l’abito. Furono messe in atto torture di vario genere e per chi non rispettava i divieti era prevista anche la morte. In tale contesto molti monaci fuggirono dall’Oriente e alcuni si stanziarono in Sardegna, dove era presente una tradizione di usi bizantini risalente alla dominazione imperiale durata cinque secoli nell’isola. Tra questi c’erano i monaci studiti, i quali fondarono monasteri che seguivano la regola di San Basilio. Nei dintorni di questi monasteri si svilupparono piccoli agglomerati che poi divennero delle ville e una di queste prese il nome di villa dei greci, da cui Villagreca. Le prime attestazioni sicure sono successive al XIII secolo, quando la villa apparteneva al Giudicato di Cagliari e alla curatoria di Nuraminis, prima della conquista aragonese. I monaci diffusero ovviamente pratiche e culti greci nei territori in cui si stanziarono. Nelle chiese di Nuraminis, Villasor, Donori e Assemini sono presenti chiese con targhe votive scritte in greco. Queste pratiche sono state in seguito soppiantate dalla Chiesa di Roma, ma rimasero in uso a Villagreca. Il patrono dell’agglomerato è San Vito, mentre la vecchia chiesa dove oggi si trova il cimitero era intitolata a San Costantino. Entrambi appartenenti al culto greco e considerati santi dalla tradizione della chiesa d’Oriente. In particolare, è ancora vivo a Villagreca il culto di San Costantino, mai canonizzato dalla Chiesa cattolica, a dimostrazione del forte legame con la chiesa di Bisanzio. Inoltre, vicino al paese possiamo trovare una località chiamata San Costantino e un ruscello denominato “Su riu de Santu Antini”. I monaci coltivavano queste terre e introdussero nuove colture, quali il vitigno del moscato e della malvasia; si dedicarono agli agrumi e agli olivi, importarono un nuovo tipo di melo e soprattutto incentivarono gli alberi da fico che venivano utilizzati sia freschi che secchi da mangiare durante i frequenti digiuni praticati dai monaci studiti. Nel territorio di Villagreca è presente una località chiamata” Su cungiau de is paras” circondato da ulivi e un tempo pieno di alberi da fico; mentre a un kilometro dal paese si potevano trovare due ulivi millenari di olive da tavola chiamata “oliva di Smirne”, ma ad oggi sono stati distrutti da un incendio doloso. Tutti questi elementi ci portano a dedurre che in questo territorio i culti trasmessi da tali monaci fossero ben radicati e siano ancora vivi oggi presso la popolazione. Infatti, tuttora nel periodo pasquale è usanza offrire del pane di semola con decorazioni e con delle uova incastonate, pratica che si svolge ancora oggi in Grecia. Il culto di San Vito si diffuse in tutta Europa in particolare nel medioevo. Secondo la tradizione il martire nacque a Mazara del Vallo, in Sicilia, da genitori pagani. Egli appartiene ai quattordici Santi Ausiliatori, così chiamati perché proteggevano gli abitanti di una città da qualsiasi pericolo. Il giovane Vito, rimasto orfano di madre, fu affidato alla nutrice Crescenza e in seguito al pedagogo Modesto, i quali lo educarono alla fede Cristiana. Sin dalla tenera età iniziò a compiere piccoli prodigi. Quando l’imperatore Diocleziano iniziò le persecuzioni contro i cristiani, il padre di Vito cercò di persuaderlo all’abiura, non riuscendoci lo denunciò al preside locale per farlo arrestare, ma la prigionia non sortì alcun effetto e venne scarcerato. Rientrato a casa, il padre cercò allora di farlo sedurre, ma non ottenne l’effetto desiderato. Il preside tentò di arrestarlo nuovamente, ma il pedagogo Modesto ebbe una visione del Signore in cui gli ordinava di fuggire con una barca insieme a Vito e Crescenza; questi fuggirono e giunsero nel Cilento e poi in Lucania, dove il giovane Vito si distinse nel fare prodigi. Qui fu trovato dalle milizie dell’imperatore, venne arrestato e condotto presso Diocleziano il quale, avendo udito delle sue capacità di guaritore, voleva che guarisse il figlio, malato di epilessia. Vito guarì il giovane, ma si rifiutò di compiere sacrifici agli dèi e l’imperatore dispose che fosse torturato tramite immersione nella pece bollente, da cui però ne uscì illeso. Da qui il racconto nella tradizione dei Martirologi aggiunge elementi leggendari: secondo un aneddoto Vito sarebbe riuscito a ridurre all’obbedienza dei leoni che avrebbero dovuto sbranarlo all'interno di un'arena; successivamente sarebbe stato appeso insieme a Modesto e Crescenza a un cavalletto per tirare le ossa, ma la terra tremò e tutti fuggirono, compreso l’imperatore. All’improvviso apparvero degli angeli che liberarono i tre prigionieri e li portarono in Lucania, dove morirono per le torture subite. Il culto di San Vito si diffuse non solo per la sua giovane età (tra i dodici e i diciassette anni), ma per le sue capacità di guaritore della epilessia, della corea (malattia che provoca movimenti incontrollati del corpo da cui il nome “ballo di San Vito”), dell’insonnia, della catalessi e della possessione demoniaca. Divenne anche il protettore dei calderai, ramai e bottai quando si diffuse la notizia che il santo era stato messo in un calderone di pece. Nel 2002 in seguito a un restauro della pavimentazione della chiesa, sono state trovate sepolture e strutture murarie che vennero analizzate tramite un’indagine archeologica; l’uso delle sepolture interne alle chiese era diffusa nel XVII secolo. Dal Concilio di Trento e da vari provvedimenti conseguenti la controriforma, l’uso di inumare all’interno delle chiese era permesso a patto che la sepoltura non avvenisse ai piedi dell’altare. Questa pratica prevedeva il versamento di denaro alla parrocchia, necessario per ripristinare la pavimentazione. Ne consegue che solo la popolazione più benestante potesse permettersi di seppellire una persona cara all’interno della chiesa . Il poco spazio disponibile probabilmente ha portato ad ammucchiare le salme una sopra l’altra senza l’utilizzo di casse e avvolte in un sudario. I corpi ritrovati nella chiesa di San Vito sono accompagnati da medaglie votive, croci e grani di rosario. Grazie agli scavi archeologici nella chiesa di San Vito possiamo ricostruire una parte della storia dell’abitato di Villagreca. Tra il XIV e il XVI secolo ci furono carestie ed epidemie in tutta l’isola e molti centri abitati ebbero una contrazione demografica con conseguente spopolamento, come la terribile peste del 1348 che si diffuse in tutta Europa. Nel 1414 d.c. il paese venne ripopolato per ordine dei signori del feudo Sanjust, ai quali nel 1355 era stata assegnata in feudo la “villam vocatam greca” dal sovrano Pietro IV d’Aragona, come possiamo leggere in un documento conservato nell’Archivio della Corona d’Aragona, come ricompensa per il sostegno avuto. Si ipotizza che il primo abitato si trovasse a 1 km dall’attuale, nei pressi della chiesa bizantina di San Costantino, e venne rifondato, dove si trova attualmente, nella seconda metà del XVI secolo. In base allo studio archeologico sull’interno della chiesa, nella parte oggetto dell’indagine, se ne ipotizza la costruzione ai primi decenni del XVII secolo. Per quanto riguarda la navata (edificata su un terreno costituito da roccia friabile) e gli spazi funerari, si ipotizza siano stati realizzati nella prima metà del milleseicento, quando furono compilati i Quinque libri, nella sezione "Los Muertos", disponibili per il paese dal 1643 al 1853, dai quali veniamo a conoscenza che i defunti venivano seppelliti sia all’interno che all’esterno della chiesa; purtroppo, del cimitero esterno non abbiamo più nessuna traccia. Solo dalla seconda metà del XVIII secolo fu utilizzato per le salme il cimitero che si trova nell’area dell’antica chiesa di San Costantino, nonostante il divieto dell’Editto di Saint Cloud emanato da Napoleone agli inizi del 1800; benché la Sardegna non fosse un dominio napoleonico, l’Editto venne messo in atto. Nel corso dei secoli furono realizzate diverse modifiche dell’edificio; alla fine del Seicento il pavimento, che in origine era stato realizzato in cotto, fu sostituito con lastre di ardesia; agli inizi del Settecento si fecero altre modifiche alla pavimentazione, per costruire le fondamenta per la nuova facciata e per il campanile; questi lavori provocarono però danni ai muri delle aree funebri. Si ipotizza che forse il pavimento sia stato realizzato in blocchi di calcare forse prelevati dall’antica chiesa di San Costantino. Spesso nel passato si riutilizzavano i materiali degli edifici in rovina poiché c’era scarsità di materie prime per l’edilizia, o era difficile reperirle. Nella chiesa di San Vito si continuò a seppellire i morti sino al 1850, dopo si consolidò l’utilizzo del cimitero nell’area dell’antica chiesa di San Costantino. Nuovamente nel 1901, in occasione di un restauro, metà dei blocchi del pavimento furono sostituiti e forse fu in questo frangente che si rimossero i resti degli ultimi defunti.