Sviluppo urbano e villaggio ipogeo
a cura di Angelica Pillitu
Quando si attraversa il ponte per arrivare a Sant’Antioco si viene accolti dal mare e dal suo paesaggio, anche ignari di ciò che si troverà.
La necropoli punica, datata VI-V secolo a.C., che si estende per quasi dieci ettari, si suddivide in tre porzioni principali: un’area sotto scavo dagli anni Cinquanta; le catacombe; una porzione che attualmente sorge sotto le abitazioni. Quest’ultima è stata la casa di tante famiglie fino agli anni Settanta: è stata luogo di nascita, d’infanzia e di dolore per tanti membri della comunità antiochense.
Se inizialmente la mia domanda di ricerca verteva sul capire come fosse avvenuta l’espansione urbana dalla fondazione dell’abitato, sostare per quasi una settimana su quest’isola mi ha catapultata in una dimensione nuova, affascinante, ed allo stesso tempo travagliata.
La domanda di ricerca che mi sono posta durante il campo estivo del LUDiCa mi ha portato a scoprire uno spaccato della storia di questa comunità frammentata e ancora sofferente, e tuttavia forte e coesa nel difendere il proprio territorio e la propria storia. Sant’Antioco si trovava in una situazione di crisi prima dell’arrivo aragonese: ormai spopolata e in condizioni di grave abbandono, non vi era un insediamento permanente, ma sparso e temporaneo.
Durante il Seicento, un gruppo di fedeli - mossi dalla devozione e dall’intenzione di trovare le reliquie del santo omonimo - occuparono quelle tombe utilizzandole come muristene. Questo suscitò l’interesse della Chiesa, portandola ad una pianificazione di ripopolamento dell’isola.
In realtà, fu la volontà di avvicinamento alla Basilica e al santo che condusse la comunità a compiere diversi lavori architettonici: svuotare la scalinata delle tombe; allargare l’ingresso del sepolcro; eliminare le sepolture e, in molti casi, aggiustare l’altezza dei soffitti, per poi imbiancarli.
Nel 1720 la politica sabauda attuò una soluzione drastica per contrastare il crescente calo demografico. Venne preventivato il trasferimento sistematico di gruppi di individui disposti a fondare nuovi insediamenti e a mettere a coltura le terre. Un primo tentativo venne fatto con un gruppo di greco-corsi, scatenando le pretese di giurisdizione dell’arcivescovo di Cagliari.
Dopo vari tentativi di accordo, si giunse nel 1754 alla conclusione che a ripopolare Sant’Antioco sarebbero stati i discendenti di chi aveva abbandonato l’isola. A partire da questo momento, le tombe - utilizzate prima come rifugi, poi come muristene - diventano delle vere e proprie abitazioni per i coloni.
Ma cosa portò la comunità a costruire in sovrapposizione alla necropoli, rispetto ad un’eventuale espansione nel resto dell’isola? Il polo attrattore è sempre stato il mare: già dall’antichità spinse le popolazioni a costruire le proprie case in prossimità della costa. Il villaggio ipogeico costituiva forse un limite inviolabile, oltre il quale era impossibile costruire.
Come a mantenere un legame con il proprio passato, si sentì il bisogno di edificare in una zona salubre per gli abitanti: ad esempio, il caseggiato scolastico venne ubicato in Corso Vittorio Emanuele, come dimostrato dalle carte d’archivio risalenti al 1907. Vennero edificate le case baronali intorno alla Basilica; tuttavia, gran parte delle tombe liberate vennero occupate dal ceto della popolazione meno abbiente. Is gruttas: questo è il nuovo appellativo dato alle tombe ipogeiche. Un’origine antica, prestigiosa, ma che si ritrovò ad assumere una connotazione dispregiativa e marginalizzante.
Non negherò di non essere rimasta turbata, quando ho approfondito questo aspetto storico e sociale, anzi: i racconti e le memorie delle persone che ho avuto il piacere di intervistare hanno scaturito in me nuovi spunti di riflessione, portandomi ad empatizzare con le vicende che mi sono state narrate.
Durante la ricerca sul campo sono emersi momenti di comunione tali da rivelare quanto ancora sia profonda questa ferita e come al giorno d’oggi, con l’innovazione e la ricerca, possa ancora esistere una tale distanza sociale all’interno di una stessa comunità. Quando ho posto la domanda “Perché si è scelta viale Trento?”, sono maturate tante riflessioni.
Tra l’imbarazzo e la perplessità della domanda, ho compreso come un fatto storico accaduto tempo addietro possa radicarsi nella memoria collettiva, talmente consolidato da far affiorare ricordi amari legati all’esclusione di una consistente parte della comunità. «Lì sono state costruite le case popolari, ma si tornava sempre nel villaggio ipogeico: era casa nostra». E per alcuni, viale Trento è tutt’oggi la casa a cui tornare.
Riferimenti bibliografici essenziali:
- Margherita Zaccagnini, L’isola di Sant’Antioco - Ricerche di geografia umana, Fossataro, Cagliari 1972