Ai Weiwei, Reframe
Collezione
Titolo
Ai Weiwei, Reframe
Definizione
Dal 23 settembre 2016 al 22 gennaio 2017 si è tenuta a Palazzo Strozzi la mostra retrospettiva Ai Weiwei. Libero, che ha unito molte delle opere storiche dell’artista cinese a creazioni inedite, pensate specificamente per la sede fiorentina.
Tra le opere site-specific, ha assunto un’inedita dimensione pubblica l’installazione temporanea Reframe, costituita da ventidue gommoni appesi su due facciate del celebre palazzo rinascimentale nell’intento di sensibilizzare le coscienze sul fronte della migrazione e dei rifugiati. Le imbarcazioni, che ricalcavano significativamente la forma delle bifore su cui erano apposte, hanno così caratterizzato non solo l’allestimento della mostra, ma anche lo spazio pubblico del centro storico fiorentino, attirando lo sguardo spaesato di passanti e turisti. Piuttosto che approfondire la controversa poetica dell’arte di Ai Weiwei (John M. Cunningham 2020), ci focalizzeremo sulla sua ricezione pubblica, tentando di offrire una panoramica più completa possibile della vasta querelle scatenatasi proprio in seguito al provocatorio utilizzo del monumento Palazzo Strozzi.
Anche se la mostra sarebbe stata inaugurata solo a fine settembre, Reframe si stagliava nel cuore di Firenze già da qualche mese. Già dal luglio precedente, infatti, veniva rivelata l’opera che da subito si candidava a divenire il simbolo della futura esposizione. Questa particolarità permette di comprendere la precocità delle discussioni suscitate, che precedettero in molti casi l’apertura della mostra.
È questo il caso dell’articolo di Camillo Langone, uscito sull’edizione online de «Il Foglio» il 13 settembre, che stroncava senza possibilità d’appello il cosiddetto «monumento al Gommone» (Camillo Langone 2016), a suo dire colpevole di umiliare per cinque diversi motivi una non meglio precisata Italia. A sostegno di un’impostazione intransigente interveniva anche il critico d’arte Francesco Bonami, che sulle colonne de «La Stampa» (Francesco Bonami 2016) sviluppava una critica certo molto diversa nella forma e nelle argomentazioni apportate, ma in fondo simile nel pronunciamento finale.
Torniamo ai gommoni. Ordinati, puliti, con il fondo che sembra una grata per essere in tono con le bifore rinascimentali del palazzo. Potrebbe averli disegnati Philippe Stark. Diversi dai gommoni luridi usati dagli scafisti per trasportare branchi di diseredati in cerca di speranza. Ma l’artista è realista. Anche l’occhio, oltre che la tragedia, vuole la sua parte. Criticare Ai Weiwei è da radical chic.
La bocciatura di Reframe non rappresentava l’unico elemento di continuità tra i due detrattori dell’opera. Qualche anno prima (stavolta su «Il Giornale»), Langone si era già pronunciato sull’artista e architetto cinese, definendolo «un altro anti-Whistler, ennesimo esempio di arte non per l'arte» (Camillo Langone 2014). Anche l’esperto Bonami nel 2016 riattualizzava argomenti e giudizi già espressi in precedenza (Bonami 2015): accennando neanche troppo velatamente alla presunta strumentalizzazione delle violenze subite dal regime cinese, già nel 2015 poteva affermare che «Ai Weiwei è un po’ come Bocelli. Parlarne male è un crimine a priori. Prima o poi vedremo anche lui a Che tempo che fa di Fazio».
Al nocciolo della questione sembrava risiedere una diversa, forse opposta, visione dell’espressione artistica, al centro di un importante dibattito innescato dall’opera dell’artista cinese (Luigi Mascheroni 2016); (Camilla Guidi 2017); (Iris van Huis & Milica Trakilović 2017). In effetti, dalle osservazioni dei due autori si scopre che l’elemento più spinoso della sua arte consisteva nella sua attualità, nel suo significato politico, caratteristiche inammissibili per i difensori di un’arte pura, completa in se stessa e giudicabile solo per le sue caratteristiche formali.
Sul fronte opposto, si distingueva la posizione favorevole di Tomaso Montanari, espressa anch’essa prima dell’effettiva apertura della mostra. Non si trattava, però, di un’approvazione assoluta: dalle parole del critico d’arte, infatti, emergeva qualche perplessità sul rischio di una possibile «estetizzazione del dolore» (Valerio Valentini 2016). Veniva introdotto così uno dei temi principali sui quali si sarebbe giocata la lunga diatriba che avrebbe accompagnato – e in molti casi superato – il periodo dell’esposizione fiorentina.
Helga Marsala, per esempio, pur riconoscendo del talento all’artista, si univa alla schiera degli scettici in merito al restyling della facciata di Palazzo Strozzi (Helga Marsala 2016). È interessante notare la riproposizione dell’argomento etico, stavolta decisivo nel determinare un’opinione negativa:
L’ombra del gesto speculativo, mediatico, unicamente scenografico, compromette in tutti questi casi l’intenzione sincera. Senza considerare l’aspetto commerciale: fare mercato, a partire dai resti di una tragedia, lascia sempre un po’ interdetti. Quanto vale un gommone della morte, dopo il tocco concettuale di Ai Weiwei?
Al di là delle specifiche tonalità di una questione assai complessa, risulta particolarmente significativo confrontare le posizioni emerse dal dibattito giornalistico con quelle proposte dal pubblico generico: non solo e non tanto dal visitatore della mostra (già distinto dalla generalità), ma dal semplice passante, imbattutosi accidentalmente in Reframe.
La straordinarietà di questo caso di studio risiede proprio nella sua intrinseca dimensione pubblica: inaugurando una tendenza ben presto replicata, l’esposizione museale non solo otteneva «the full run» (Hannah McGivern 2016) del Palazzo, ma si spostava per la prima volta all’esterno, proponendosi a chiunque si fosse trovato a percorrere le vie del centro storico fiorentino. Il contenitore, dunque, diveniva esso stesso contenuto, determinando un cortocircuito visivo e mediatico.
Come mostra un breve servizio trasmesso su una radio locale, anche la città si trovava scissa tra sostenitori e critici dell’audace installazione. Un altro ripetitore, forse ancor più efficace per saggiare le reazioni pubbliche, è rappresentato dai social networks. Non è affatto sorprendente, quindi, che la pagina Facebook di Palazzo Strozzi venisse inondata di commenti che confermavano la spaccatura del grande pubblico. Analizzandone i contenuti, si scopre che molto spesso le argomentazioni coincidevano con quelle che - una volta ripulite - venivano poi riproposte dalle testate a cui abbiamo fatto riferimento. La principale conseguenza di questa attitudine è stata la semplificazione della discussione e la polarizzazione del dibattito sulla persona di Ai Weiwei. Prima ancora che i gommoni, l’oggetto del contendere era quindi la valutazione umana dell’artista, attaccato da chi lo accusava di aver furbescamente capitalizzato la propria vicenda politica e difeso da chi, ricordandone le persecuzioni da parte del governo cinese, preferiva prendersela con una superficiale tipizzazione del cittadino fiorentino (Federico Giannini 2016).
Il carattere pubblico di Reframe rappresentava l’altro capo d’imputazione principale. In un commento emblematico al post che annunciava la rimozione dell’allestimento, si affermava:
A me sembra che di Arte ci sia ben poco. Questa mostra andava organizzata in una location moderna e non in un luogo che è sacro di antichità. I commenti positivi sembrano scritti da persone che lavorano nel museo.
Nell’articolo già citato (Camillo Langone 2016) si raccoglieva proprio questo genere di sensibilità, affermando che «l’installazione profana la città culla del Rinascimento, trasformata (non da oggi, a onor del vero) in fossa del Disfacimento».
Queste affermazioni conducono a due considerazioni finali. In primo luogo, il dibattito pubblico scatenato da Reframe ha saputo sollevare molte questioni sulla natura e sullo status di bene culturale. La percezione di esso è sembrata svilupparsi e imporsi proprio nel momento in cui si è ritenuto minacciato un luogo identitario per la comunità. Nel caso in questione, il pericolo era rappresentato dalla commistione tra antico e moderno (tema cardine della poetica di Ai Weiwei). Secondo una tendenza amplificata a dismisura in città d’arte come Firenze e Venezia, la bellezza, una volta divenuta emblema della loro specificità, sembra fungere da argine rispetto alla ricezione dell’arte contemporanea, tipicamente refrattaria ai concetti di bello e brutto (si veda, a questo proposito, l'intervista di Monica D’Onofrio ad Arturo Galansino, curatore della mostra e direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi). Quando l’antico si modellizza per divenire canone assoluto di bellezza e di identità, ogni modifica tende ad essere concepita, almeno da una buona parte del pubblico, come un oggetto estraneo, come un’intrusione (Bartoloni 2019) o - ed è questo il caso - come un’invasione.
Invasione: sembra essere proprio questo il punto focale. Nessuna parola ha conosciuto un’esposizione pubblica e mediatica simile nel corso del dibattito pubblico sulla mostra. Pagine web, volantini e articoli sono stati quasi monopolizzati da questo termine, utilizzato per titoli ad effetto (Alessandro Dalai 2016) o rivendicato come simbolo stesso della mostra (si veda a questo proposito il bel documentario curato da Rai 5).
Ma - questo è il fulcro - si trattava di un utilizzo polisemico: dietro l’uso della stessa parola si celavano significati e finalità diverse, a volte opposte. Si scopre così che col medesimo termine si poteva far riferimento alla turbolenta questione migratoria, all’inondazione di commenti sulla pagina Facebook della Fondazione Palazzo Strozzi o alla stessa opera Reframe.
L’opera d’arte rivelava dunque un’invasività strabiliante: ‘l’invasione dei gommoni’ riguardava i campi dello spazio pubblico, del bene culturale e, più in generale, della costruzione e decostruzione di un’identità comune.
Tra le opere site-specific, ha assunto un’inedita dimensione pubblica l’installazione temporanea Reframe, costituita da ventidue gommoni appesi su due facciate del celebre palazzo rinascimentale nell’intento di sensibilizzare le coscienze sul fronte della migrazione e dei rifugiati. Le imbarcazioni, che ricalcavano significativamente la forma delle bifore su cui erano apposte, hanno così caratterizzato non solo l’allestimento della mostra, ma anche lo spazio pubblico del centro storico fiorentino, attirando lo sguardo spaesato di passanti e turisti. Piuttosto che approfondire la controversa poetica dell’arte di Ai Weiwei (John M. Cunningham 2020), ci focalizzeremo sulla sua ricezione pubblica, tentando di offrire una panoramica più completa possibile della vasta querelle scatenatasi proprio in seguito al provocatorio utilizzo del monumento Palazzo Strozzi.
Anche se la mostra sarebbe stata inaugurata solo a fine settembre, Reframe si stagliava nel cuore di Firenze già da qualche mese. Già dal luglio precedente, infatti, veniva rivelata l’opera che da subito si candidava a divenire il simbolo della futura esposizione. Questa particolarità permette di comprendere la precocità delle discussioni suscitate, che precedettero in molti casi l’apertura della mostra.
È questo il caso dell’articolo di Camillo Langone, uscito sull’edizione online de «Il Foglio» il 13 settembre, che stroncava senza possibilità d’appello il cosiddetto «monumento al Gommone» (Camillo Langone 2016), a suo dire colpevole di umiliare per cinque diversi motivi una non meglio precisata Italia. A sostegno di un’impostazione intransigente interveniva anche il critico d’arte Francesco Bonami, che sulle colonne de «La Stampa» (Francesco Bonami 2016) sviluppava una critica certo molto diversa nella forma e nelle argomentazioni apportate, ma in fondo simile nel pronunciamento finale.
Torniamo ai gommoni. Ordinati, puliti, con il fondo che sembra una grata per essere in tono con le bifore rinascimentali del palazzo. Potrebbe averli disegnati Philippe Stark. Diversi dai gommoni luridi usati dagli scafisti per trasportare branchi di diseredati in cerca di speranza. Ma l’artista è realista. Anche l’occhio, oltre che la tragedia, vuole la sua parte. Criticare Ai Weiwei è da radical chic.
La bocciatura di Reframe non rappresentava l’unico elemento di continuità tra i due detrattori dell’opera. Qualche anno prima (stavolta su «Il Giornale»), Langone si era già pronunciato sull’artista e architetto cinese, definendolo «un altro anti-Whistler, ennesimo esempio di arte non per l'arte» (Camillo Langone 2014). Anche l’esperto Bonami nel 2016 riattualizzava argomenti e giudizi già espressi in precedenza (Bonami 2015): accennando neanche troppo velatamente alla presunta strumentalizzazione delle violenze subite dal regime cinese, già nel 2015 poteva affermare che «Ai Weiwei è un po’ come Bocelli. Parlarne male è un crimine a priori. Prima o poi vedremo anche lui a Che tempo che fa di Fazio».
Al nocciolo della questione sembrava risiedere una diversa, forse opposta, visione dell’espressione artistica, al centro di un importante dibattito innescato dall’opera dell’artista cinese (Luigi Mascheroni 2016); (Camilla Guidi 2017); (Iris van Huis & Milica Trakilović 2017). In effetti, dalle osservazioni dei due autori si scopre che l’elemento più spinoso della sua arte consisteva nella sua attualità, nel suo significato politico, caratteristiche inammissibili per i difensori di un’arte pura, completa in se stessa e giudicabile solo per le sue caratteristiche formali.
Sul fronte opposto, si distingueva la posizione favorevole di Tomaso Montanari, espressa anch’essa prima dell’effettiva apertura della mostra. Non si trattava, però, di un’approvazione assoluta: dalle parole del critico d’arte, infatti, emergeva qualche perplessità sul rischio di una possibile «estetizzazione del dolore» (Valerio Valentini 2016). Veniva introdotto così uno dei temi principali sui quali si sarebbe giocata la lunga diatriba che avrebbe accompagnato – e in molti casi superato – il periodo dell’esposizione fiorentina.
Helga Marsala, per esempio, pur riconoscendo del talento all’artista, si univa alla schiera degli scettici in merito al restyling della facciata di Palazzo Strozzi (Helga Marsala 2016). È interessante notare la riproposizione dell’argomento etico, stavolta decisivo nel determinare un’opinione negativa:
L’ombra del gesto speculativo, mediatico, unicamente scenografico, compromette in tutti questi casi l’intenzione sincera. Senza considerare l’aspetto commerciale: fare mercato, a partire dai resti di una tragedia, lascia sempre un po’ interdetti. Quanto vale un gommone della morte, dopo il tocco concettuale di Ai Weiwei?
Al di là delle specifiche tonalità di una questione assai complessa, risulta particolarmente significativo confrontare le posizioni emerse dal dibattito giornalistico con quelle proposte dal pubblico generico: non solo e non tanto dal visitatore della mostra (già distinto dalla generalità), ma dal semplice passante, imbattutosi accidentalmente in Reframe.
La straordinarietà di questo caso di studio risiede proprio nella sua intrinseca dimensione pubblica: inaugurando una tendenza ben presto replicata, l’esposizione museale non solo otteneva «the full run» (Hannah McGivern 2016) del Palazzo, ma si spostava per la prima volta all’esterno, proponendosi a chiunque si fosse trovato a percorrere le vie del centro storico fiorentino. Il contenitore, dunque, diveniva esso stesso contenuto, determinando un cortocircuito visivo e mediatico.
Come mostra un breve servizio trasmesso su una radio locale, anche la città si trovava scissa tra sostenitori e critici dell’audace installazione. Un altro ripetitore, forse ancor più efficace per saggiare le reazioni pubbliche, è rappresentato dai social networks. Non è affatto sorprendente, quindi, che la pagina Facebook di Palazzo Strozzi venisse inondata di commenti che confermavano la spaccatura del grande pubblico. Analizzandone i contenuti, si scopre che molto spesso le argomentazioni coincidevano con quelle che - una volta ripulite - venivano poi riproposte dalle testate a cui abbiamo fatto riferimento. La principale conseguenza di questa attitudine è stata la semplificazione della discussione e la polarizzazione del dibattito sulla persona di Ai Weiwei. Prima ancora che i gommoni, l’oggetto del contendere era quindi la valutazione umana dell’artista, attaccato da chi lo accusava di aver furbescamente capitalizzato la propria vicenda politica e difeso da chi, ricordandone le persecuzioni da parte del governo cinese, preferiva prendersela con una superficiale tipizzazione del cittadino fiorentino (Federico Giannini 2016).
Il carattere pubblico di Reframe rappresentava l’altro capo d’imputazione principale. In un commento emblematico al post che annunciava la rimozione dell’allestimento, si affermava:
A me sembra che di Arte ci sia ben poco. Questa mostra andava organizzata in una location moderna e non in un luogo che è sacro di antichità. I commenti positivi sembrano scritti da persone che lavorano nel museo.
Nell’articolo già citato (Camillo Langone 2016) si raccoglieva proprio questo genere di sensibilità, affermando che «l’installazione profana la città culla del Rinascimento, trasformata (non da oggi, a onor del vero) in fossa del Disfacimento».
Queste affermazioni conducono a due considerazioni finali. In primo luogo, il dibattito pubblico scatenato da Reframe ha saputo sollevare molte questioni sulla natura e sullo status di bene culturale. La percezione di esso è sembrata svilupparsi e imporsi proprio nel momento in cui si è ritenuto minacciato un luogo identitario per la comunità. Nel caso in questione, il pericolo era rappresentato dalla commistione tra antico e moderno (tema cardine della poetica di Ai Weiwei). Secondo una tendenza amplificata a dismisura in città d’arte come Firenze e Venezia, la bellezza, una volta divenuta emblema della loro specificità, sembra fungere da argine rispetto alla ricezione dell’arte contemporanea, tipicamente refrattaria ai concetti di bello e brutto (si veda, a questo proposito, l'intervista di Monica D’Onofrio ad Arturo Galansino, curatore della mostra e direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi). Quando l’antico si modellizza per divenire canone assoluto di bellezza e di identità, ogni modifica tende ad essere concepita, almeno da una buona parte del pubblico, come un oggetto estraneo, come un’intrusione (Bartoloni 2019) o - ed è questo il caso - come un’invasione.
Invasione: sembra essere proprio questo il punto focale. Nessuna parola ha conosciuto un’esposizione pubblica e mediatica simile nel corso del dibattito pubblico sulla mostra. Pagine web, volantini e articoli sono stati quasi monopolizzati da questo termine, utilizzato per titoli ad effetto (Alessandro Dalai 2016) o rivendicato come simbolo stesso della mostra (si veda a questo proposito il bel documentario curato da Rai 5).
Ma - questo è il fulcro - si trattava di un utilizzo polisemico: dietro l’uso della stessa parola si celavano significati e finalità diverse, a volte opposte. Si scopre così che col medesimo termine si poteva far riferimento alla turbolenta questione migratoria, all’inondazione di commenti sulla pagina Facebook della Fondazione Palazzo Strozzi o alla stessa opera Reframe.
L’opera d’arte rivelava dunque un’invasività strabiliante: ‘l’invasione dei gommoni’ riguardava i campi dello spazio pubblico, del bene culturale e, più in generale, della costruzione e decostruzione di un’identità comune.
Misure
Cm 650 x 325 x 75 ciascuno (22 gommoni di salvataggio)
Localizzazione geografico-amministrativa attuale
Italia, Toscana, Firenze, FI
Collocazione specifica
Facciate di Palazzo Strozzi, Piazza degli Strozzi, 50123 Firenze
Cronologia generica
2016 - 2017
Cronologia specifica
July 2016
January 22, 2017
ESC - Ente schedatore
L.U.Di.Ca.
Autore della scheda
Giacomo Carmagnini
Data
22/06/2021
Licenza d'uso
Libera
Contenuti
-
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