Intervista ad Antonella Camarda
Contenuto
Titolo
Intervista ad Antonella Camarda
Data di inizio
19/03/2021
Titolo originale
Cavallini di Nivola, il pericolo non è scampato. Parla Antonella Camarda, direttrice del museo di Orani
Ambiti e contenuto
Non si sa che fine faranno i famosi cavallini e le altre opere realizzate da Costantino Nivola alle Wise Towers di New York. Un'intervista per fare il punto della situazione.
Autore del documento
Mario Gottardi
Lingua
Italiano
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Pubblico
Citazione bibliografica
Autore della riproduzione digitale
Formato
HTML
ESC - Ente schedatore
Creatore
Marta Melis
Data di creazione
22/03/2021
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Articolo di rivista online
riassunto
Dopo la rimozione dei cavallini di Nivola nella piazza delle Wise Towers a New York, il Museo di Orani ha innescato una protesta che è partita dall’Italia, ha attraversato l’intero globo ed è deflagrata nella Grande Mela. Ne abbiamo parlato con Antonella Camarda, docente di Storia dell’Arte all’Università di Sassari, dal 2015 direttrice del museo e dallo scorso anno anche manager del Distretto culturale del Nuorese.
Partiamo dall’inizio: come siete venuti a conoscenza della rimozione dei cavallini di Nivola?
Siamo stati avvertiti dal co-curatore della mostra ‘Nivola. Figure in Field’, organizzata nel 2020, alla Cooper Union di New York, Steven Hillyer. Questo in realtà è solo l’ultimo atto di vandalismo sull’arte pubblica.
Vandalismo?
Da un lato c’è la normale evoluzione delle città, graffiti vengono cancellati perché si deve ristrutturare un edificio, o cambia l’intero assetto di un quartiere per rispondere alle esigenze della popolazione. Spesso, però, prevalgono ragionamenti economici su considerazioni urbanistiche, sociali o culturali: del resto è molto più semplice buttar giù e rifare, piuttosto che impelagarsi in complicati progetti di restauro e ristrutturazione. È questo atteggiamento che ho definito vandalismo istituzionale. E non è peculiarità americana. Abbiamo molti esempi in tal senso, anche in Italia, anche in Sardegna.
Ne faccia uno.
Vogliamo parlare di Tuvixeddu? Abbiamo rischiato una distruzione che sarebbe stata incommensurabilmente più grave di quella accaduta a New York.
No, la prego. Ma solo perché servirebbe un’altra intervista.
Eh (sorride, ndr)
Riprendiamo il filo: quando avete saputo, cosa avete fatto?
C’è stato un momento di scoramento e pessimismo. Anche per l’impossibilità di prendere un aereo e andare lì, a controllare. A New York avevamo iniziato un percorso per far conoscere Nivola, realizzando una guida di tutte le sue opere in città, in occasione della mostra alla Cooper Union. Quindi ci siamo detti: “No, dannazione! Dobbiamo rimboccarci le maniche”
E avete pubblicato il post. Di chi è stata l’idea?
Mi sono assunta io la responsabilità, in accordo con la presidente Giuliana Altea. È stato un post molto duro, e dai toni forti, ma in questi casi la direzione ha il dovere di fare delle scelte, e rapidamente, se si vuole raggiungere un risultato.
Tg1, Repubblica, Sole24Ore, Ansa, The New York Times: pensava a un successo del genere?
Assolutamente no. Tante volte i musei in Sardegna faticano ad ottenere la giusta visibilità, anche quando realizzano mostre interessanti o altre iniziative di grande valore. Ma è vero che la cronaca “tira” sempre più della cultura!
Da chi è arrivata la solidarietà?
Da singoli, associazioni come DOCOMOMO Italia, università, dai circoli dei sardi all’estero. Geograficamente, da Argentina, Stati Uniti, Belgrado, Russia, Giappone, etc., anche dal Comune di Dicomano, nel Mugello, dove Nivola aveva una casa. Siamo stati letteralmente subissati da mail, lettere, messaggi.
Pensa che senza questa ondata di indignazione i cavallini di Nivola sarebbero stati risparmiati dalla furia distruttrice?
Credo di no. Senza questa reazione veramente globale, il progetto sarebbe andato avanti nel silenzio. Il modo in cui sono stati rimossi i cavallini indica la mancanza di un’attenzione conservativa.
Nella piazza non c’erano solo i cavallini ma ci sono ancora un murale, una scultura tridimensionale, una fontana, una parete bifacciale scolpita. Nei progetti di ristrutturazione della New York Public Housing Authority queste opere che fine faranno?
Allo stato attuale di progettazione, alcuni elementi rimarranno in situ, ma la piazza come fu pensata da Nivola e Richard Stein appare completamente trasformata. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un insieme di opere. È un tutto armonico, in cui ogni elemento dialoga con gli altri. Come piazza Sebastiano Satta, a Nuoro, sempre di Nivola e Stein, in cui sarebbe impensabile togliere due massi, rimuovere un paio di sculture, o cambiare la forma delle panche.
Quindi il pericolo non è scampato?
No, a differenza di quanto è stato scritto. Perché il progetto di riqualificazione della piazza distrugge quell’unità di cui dicevo. La nostra azione ha impedito la distruzione dei cavallini, che ora sono conservati in un deposito, e iniziato un dialogo con i progettisti, guidato per la Fondazione da Carl Stein, figlio di Richard e architetto newyorchese, membro del comitato scientifico della fondazione. Ci sentiamo in buone mani, ma non abbassiamo la guardia.
Come può la piccola Orani far fronte al Golia New York per tutelare le opere del suo Nivola?
Può, facendo fare alla Fondazione il suo lavoro. È vero che siamo piccoli ma come ha dimostrato la reazione a questo episodio, abbiamo visto che le comunità non hanno confini, sono aperte. Un’esposizione mediatica a volte vale più di una lunga negoziazione politica, soprattutto se le persone che vivono quei palazzi prendono posizione. Non penso a New York in opposizione con Orani: gli abitanti delle towers amano la piazza, e lavoriamo anche per far sentire la loro voce.
In un certo senso hanno già “risposto” a Nivola.
Sì, perché l’intento originario di Costantino era generare un senso di appartenenza intorno all’arte.
Direi che c’è riuscito, visto che tutto è partito dal rapper BIGG DOGG, che lì vive.
È un bell’esempio quello arrivato da BIGG DOGG, perché ha detto che in quella piazza, su quei cavallini sono passate tante storie, tante vite. Bambini che hanno visto ogni giorno quelle opere andando all’asilo, a scuola, e magari hanno pensato che anche loro potevano dare fare qualcosa di creativo nella loro vita. Ci piace pensare che sia così, e che così sia stato anche per BIGG DOGG.
A dispetto del nome altisonante, le Wise Towers e la Stephen Wise Recreation Area non erano un luogo d’elite ma un complesso di case popolari. Perché Nivola, negli anni Sessanta, ha voluto creare le sue opere proprio in un luogo proletario?
Era stato coinvolto nella commissione dall’architetto Richard Stein, che nel 1962 era stato incaricato dalla New York City Housing Authority di realizzare un playground tra le due torri. Ma era anche un progetto profondamente nelle corde di Nivola, che era convinto che l’arte dovesse migliorare la vita delle persone. I due hanno voluto dotare una zona ad alta densità abitativa di spazi creativi, di socialità. Arte pubblica nel senso pieno del termine.
Rimaniamo su questo concetto. In Sardegna abbiamo tanti esempi di arte pubblica, pensiamo ai murales. Perché questa forma d’arte piace tanto nell’isola?
Ho dubbi molto forti sulla diffusione del cosiddetto murale in Sardegna. Quando agisco su uno spazio pubblico io sto imponendo l’opera d’arte anche a persone che potenzialmente potrebbero non gradirla e che comunque non l’hanno scelta. Prima di commissionare un’opera d’arte pubblica ci vuole molto studio, tanta analisi, e processi partecipativi.
Invece?
La street art è un po’ una foglia di fico per tanti amministratori, che invece di attivare programmi sociali per contrastare il disagio se la cavano commissionando un graffito, un murale. Non è un caso se in Italia la street art la vediamo in genere in luoghi caratterizzati da degrado sociale. Perché non la vediamo ai Parioli o in Piazza di Spagna?
Risponda.
Perché la street art è un marcatore sociale, viene imposta solo in determinati contesti. Vorrei specificare una cosa, però.
Prego.
Il mio non è un giudizio sulla qualità degli artisti che fanno street art — ce ne sono di bravissimi — è un discorso sull’arte pubblica e sulla sua funzione nel contesto urbano.
Uno dei vostri ultimi post è un appello alla liberazione di Patrick Zaki. Perché un museo dovrebbe prendere posizione su temi sociali e politici?
Abbiamo accolto l’iniziativa di Amnesty International. Un museo non è solo un posto pieno di cose belle ma ha una missione specifica, politica, come l’arte: siamo lì per dire la nostra. È successo con le scorie, è successo con i migranti.
C’entra qualcosa con le idee di Nivola?
Costantino Nivola era anarchico e antifascista. Già dall’inizio degli anni Settanta è stato un ambientalista. Credere in un artista significa anche riaffermare i suoi valori in azioni e interventi che realizziamo oggi. Se Nivola fosse stato fascista avrei avuto difficoltà a dirigere un museo dedicato a lui.
Chiudiamo parlando del futuro. Prossimi progetti?
Saremo uno dei primi musei italiani a partire con un progetto finalmente non virtuale: ANTESTERIA di Peter Halley. È un’installazione spettacolare, dionisiaca, sarà in un certo senso un momento di liberazione psicologica, si entrerà in uno spazio libero in cui “esplode” tutto, luce, forme e colore. L’ex lavatoio di Orani, sede delle nostre mostre temporanee, sarà completamente trasformato.
Quando verrà inaugurata?
Avremmo voluto prima di Pasqua, ma con il permanere delle limitazioni e la situazione generale in Italia, abbiamo deciso di attendere che le persone possano muoversi più liberamente, anche nei weekend.
Partiamo dall’inizio: come siete venuti a conoscenza della rimozione dei cavallini di Nivola?
Siamo stati avvertiti dal co-curatore della mostra ‘Nivola. Figure in Field’, organizzata nel 2020, alla Cooper Union di New York, Steven Hillyer. Questo in realtà è solo l’ultimo atto di vandalismo sull’arte pubblica.
Vandalismo?
Da un lato c’è la normale evoluzione delle città, graffiti vengono cancellati perché si deve ristrutturare un edificio, o cambia l’intero assetto di un quartiere per rispondere alle esigenze della popolazione. Spesso, però, prevalgono ragionamenti economici su considerazioni urbanistiche, sociali o culturali: del resto è molto più semplice buttar giù e rifare, piuttosto che impelagarsi in complicati progetti di restauro e ristrutturazione. È questo atteggiamento che ho definito vandalismo istituzionale. E non è peculiarità americana. Abbiamo molti esempi in tal senso, anche in Italia, anche in Sardegna.
Ne faccia uno.
Vogliamo parlare di Tuvixeddu? Abbiamo rischiato una distruzione che sarebbe stata incommensurabilmente più grave di quella accaduta a New York.
No, la prego. Ma solo perché servirebbe un’altra intervista.
Eh (sorride, ndr)
Riprendiamo il filo: quando avete saputo, cosa avete fatto?
C’è stato un momento di scoramento e pessimismo. Anche per l’impossibilità di prendere un aereo e andare lì, a controllare. A New York avevamo iniziato un percorso per far conoscere Nivola, realizzando una guida di tutte le sue opere in città, in occasione della mostra alla Cooper Union. Quindi ci siamo detti: “No, dannazione! Dobbiamo rimboccarci le maniche”
E avete pubblicato il post. Di chi è stata l’idea?
Mi sono assunta io la responsabilità, in accordo con la presidente Giuliana Altea. È stato un post molto duro, e dai toni forti, ma in questi casi la direzione ha il dovere di fare delle scelte, e rapidamente, se si vuole raggiungere un risultato.
Tg1, Repubblica, Sole24Ore, Ansa, The New York Times: pensava a un successo del genere?
Assolutamente no. Tante volte i musei in Sardegna faticano ad ottenere la giusta visibilità, anche quando realizzano mostre interessanti o altre iniziative di grande valore. Ma è vero che la cronaca “tira” sempre più della cultura!
Da chi è arrivata la solidarietà?
Da singoli, associazioni come DOCOMOMO Italia, università, dai circoli dei sardi all’estero. Geograficamente, da Argentina, Stati Uniti, Belgrado, Russia, Giappone, etc., anche dal Comune di Dicomano, nel Mugello, dove Nivola aveva una casa. Siamo stati letteralmente subissati da mail, lettere, messaggi.
Pensa che senza questa ondata di indignazione i cavallini di Nivola sarebbero stati risparmiati dalla furia distruttrice?
Credo di no. Senza questa reazione veramente globale, il progetto sarebbe andato avanti nel silenzio. Il modo in cui sono stati rimossi i cavallini indica la mancanza di un’attenzione conservativa.
Nella piazza non c’erano solo i cavallini ma ci sono ancora un murale, una scultura tridimensionale, una fontana, una parete bifacciale scolpita. Nei progetti di ristrutturazione della New York Public Housing Authority queste opere che fine faranno?
Allo stato attuale di progettazione, alcuni elementi rimarranno in situ, ma la piazza come fu pensata da Nivola e Richard Stein appare completamente trasformata. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un insieme di opere. È un tutto armonico, in cui ogni elemento dialoga con gli altri. Come piazza Sebastiano Satta, a Nuoro, sempre di Nivola e Stein, in cui sarebbe impensabile togliere due massi, rimuovere un paio di sculture, o cambiare la forma delle panche.
Quindi il pericolo non è scampato?
No, a differenza di quanto è stato scritto. Perché il progetto di riqualificazione della piazza distrugge quell’unità di cui dicevo. La nostra azione ha impedito la distruzione dei cavallini, che ora sono conservati in un deposito, e iniziato un dialogo con i progettisti, guidato per la Fondazione da Carl Stein, figlio di Richard e architetto newyorchese, membro del comitato scientifico della fondazione. Ci sentiamo in buone mani, ma non abbassiamo la guardia.
Come può la piccola Orani far fronte al Golia New York per tutelare le opere del suo Nivola?
Può, facendo fare alla Fondazione il suo lavoro. È vero che siamo piccoli ma come ha dimostrato la reazione a questo episodio, abbiamo visto che le comunità non hanno confini, sono aperte. Un’esposizione mediatica a volte vale più di una lunga negoziazione politica, soprattutto se le persone che vivono quei palazzi prendono posizione. Non penso a New York in opposizione con Orani: gli abitanti delle towers amano la piazza, e lavoriamo anche per far sentire la loro voce.
In un certo senso hanno già “risposto” a Nivola.
Sì, perché l’intento originario di Costantino era generare un senso di appartenenza intorno all’arte.
Direi che c’è riuscito, visto che tutto è partito dal rapper BIGG DOGG, che lì vive.
È un bell’esempio quello arrivato da BIGG DOGG, perché ha detto che in quella piazza, su quei cavallini sono passate tante storie, tante vite. Bambini che hanno visto ogni giorno quelle opere andando all’asilo, a scuola, e magari hanno pensato che anche loro potevano dare fare qualcosa di creativo nella loro vita. Ci piace pensare che sia così, e che così sia stato anche per BIGG DOGG.
A dispetto del nome altisonante, le Wise Towers e la Stephen Wise Recreation Area non erano un luogo d’elite ma un complesso di case popolari. Perché Nivola, negli anni Sessanta, ha voluto creare le sue opere proprio in un luogo proletario?
Era stato coinvolto nella commissione dall’architetto Richard Stein, che nel 1962 era stato incaricato dalla New York City Housing Authority di realizzare un playground tra le due torri. Ma era anche un progetto profondamente nelle corde di Nivola, che era convinto che l’arte dovesse migliorare la vita delle persone. I due hanno voluto dotare una zona ad alta densità abitativa di spazi creativi, di socialità. Arte pubblica nel senso pieno del termine.
Rimaniamo su questo concetto. In Sardegna abbiamo tanti esempi di arte pubblica, pensiamo ai murales. Perché questa forma d’arte piace tanto nell’isola?
Ho dubbi molto forti sulla diffusione del cosiddetto murale in Sardegna. Quando agisco su uno spazio pubblico io sto imponendo l’opera d’arte anche a persone che potenzialmente potrebbero non gradirla e che comunque non l’hanno scelta. Prima di commissionare un’opera d’arte pubblica ci vuole molto studio, tanta analisi, e processi partecipativi.
Invece?
La street art è un po’ una foglia di fico per tanti amministratori, che invece di attivare programmi sociali per contrastare il disagio se la cavano commissionando un graffito, un murale. Non è un caso se in Italia la street art la vediamo in genere in luoghi caratterizzati da degrado sociale. Perché non la vediamo ai Parioli o in Piazza di Spagna?
Risponda.
Perché la street art è un marcatore sociale, viene imposta solo in determinati contesti. Vorrei specificare una cosa, però.
Prego.
Il mio non è un giudizio sulla qualità degli artisti che fanno street art — ce ne sono di bravissimi — è un discorso sull’arte pubblica e sulla sua funzione nel contesto urbano.
Uno dei vostri ultimi post è un appello alla liberazione di Patrick Zaki. Perché un museo dovrebbe prendere posizione su temi sociali e politici?
Abbiamo accolto l’iniziativa di Amnesty International. Un museo non è solo un posto pieno di cose belle ma ha una missione specifica, politica, come l’arte: siamo lì per dire la nostra. È successo con le scorie, è successo con i migranti.
C’entra qualcosa con le idee di Nivola?
Costantino Nivola era anarchico e antifascista. Già dall’inizio degli anni Settanta è stato un ambientalista. Credere in un artista significa anche riaffermare i suoi valori in azioni e interventi che realizziamo oggi. Se Nivola fosse stato fascista avrei avuto difficoltà a dirigere un museo dedicato a lui.
Chiudiamo parlando del futuro. Prossimi progetti?
Saremo uno dei primi musei italiani a partire con un progetto finalmente non virtuale: ANTESTERIA di Peter Halley. È un’installazione spettacolare, dionisiaca, sarà in un certo senso un momento di liberazione psicologica, si entrerà in uno spazio libero in cui “esplode” tutto, luce, forme e colore. L’ex lavatoio di Orani, sede delle nostre mostre temporanee, sarà completamente trasformato.
Quando verrà inaugurata?
Avremmo voluto prima di Pasqua, ma con il permanere delle limitazioni e la situazione generale in Italia, abbiamo deciso di attendere che le persone possano muoversi più liberamente, anche nei weekend.
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Articolo di rivista, intervista
Titolo alternativo
Intervista ad Antonella Camarda sui "cavallini" di Nivola
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