Informazioni storiche sui porti della Sardegna

Dalle origini al Medioevo
Alcuni studiosi ritengono che i primi popoli che sbarcarono in Sardegna fossero navigatori e mercanti greci, altri che provenissero dall’Etruria. Sono proprio gli autori greci a dire che il primo nome attribuito all’isola fosse “Ichnusa”, che indica la forma del piede umano; poi probabilmente il nome attuale fu dato dalla prima colonia di Libii, guidati da Sardus (di tale opinione dovevano essere anche i romani, che coniarono una moneta consolare con la scritta “Sardu Pater”). L’insediamento di questi popoli risale alla prima metà del 1400 a.C..
La prima spedizione romana menzionata dalla storia risale al 259 a.C.: inizialmente venne presa Olbia e poi fu occupato il resto dell’isola; un periodo prospero quello romano, grazie alla produzione di ingenti quantità di grano esportato dall’isola a Roma, ma anche per le risorse minerarie e il sale e per lo sfruttamento di porti ed empori costieri, usati come scali nei collegamenti navali tra l’Europa e l’Africa.

Con la decadenza dell’Impero romano anche la Sardegna finì sotto la dominazione degli imperatori d’Oriente, un periodo pieno di devastazioni e sventure, continuamente interessato dalle incursioni dei Vandali dal 427 d.C. Dal 700 d.C. anche i Saraceni attaccarono la Sardegna, occupando varie località soprattutto della costa meridionale; le campagne vennero abbandonate, le città distrutte.
In questo periodo fu Carlo Magno a sconfiggere il re Longobardo e a consegnare alla Chiesa i domini di cui essa rivendicava la sovranità, tra cui la Sardegna.
Nei primi anni mille il Papa Giovanni XVIII, per liberare la Sardegna dai continui attacchi dei mori, indisse una sorta di crociata contro gli infedeli, promettendo il possesso dell’isola a chi l’avesse liberata dal loro dominio: fu per prima la flotta pisana a cacciarli. Una seconda spedizione organizzata da papa Benedetto VII vide unite le due repubbliche di Genova e Pisa, che cacciarono i mori nel 1022. Iniziarono così le lotte tra le due repubbliche per il controllo dell’isola.

Già dalla fine del secolo 11° e inizi del 12° sono numerosi i mercanti pisani nei porti principali dell’isola: a Torres, a Cagliari, a Terranova, a Orosei, i quali ottennero diversi privilegi quali l’esenzione dai dazi e quello di essere giudicati direttamente dal giudice o da suoi speciali magistrati. 
Queste concessioni eccezionali trasformarono profondamente le competenze dei funzionari portuali, i maiores de portu, che si occupavano di gestire il porto, probabilmente in continuazione con l’antico ufficio romano e bizantino; in questo periodo sono soprattutto cittadini pisani a svolgere questi compiti, forse perchè più esperti nelle cose di mare e più abili nel commercio. Crescendo di numero, i pisani divennero dei nuclei etnici consistenti, con una propria organizzazione, addirittura con un proprio porto a Cagliari, il portus de Gruttis, con magazzini, abitazioni e la chiesa. Col tempo comparirà anche un ufficiale della madrepatria, il console, conforme agli usi della vita commerciale pisana: un’istituzione che aveva scopi giurisdizionali ma anche funzioni civili, di polizia e di rappresentanza del comune dominante presso le singole colonie locali.
Entro il primo trentennio del 13° secolo, tali istituzioni consolari pisane avevano messo  profonde radici in tutti i porti principali della Sardegna; i mercanti si costituirono in un gruppo autonomo, formando un comune portus, primo esempio di istituzione comunale.

Agli inizi del Trecento la Sardegna post-giudicale godeva di una relativa prosperità economica e sociale: grazie alle fertili terre cerealicole del Campidano era uno dei maggiori granai del Mediterraneo. 
Le saline di Cagliari garantivano cospicui introiti doganali tramite le esportazioni dirette verso le principali città italiane. 
Le miniere di piombo argentifero di Iglesias forniva il 5% di tutto l’argento estratto in Europa. 
A grano, sale e argento si aggiungevano i prodotti tipici dell’economia pastorale dell’entroterra sardo: cuoio, pelli, formaggio, lana, ecc.
Le famiglie pisane e genovesi crearono e svilupparono le città sarde del basso Medioevo, castelli e villaggi fortificati, con una progressiva scomparsa dei municipi punico-romani dell’alto Medioevo.

Età Moderna

Nell’età moderna il Regno della Sardegna faceva parte della monarchia spagnola, mantenendo comunque una propria personalità istituzionale e giuridica; il governo sabaudo poi tenne inalterati per quasi tutto il Settecento gli ordinamenti giuridici e amministrativi precedenti.
Tra il 13° e 14° secolo la Sardegna era parte integrante di una rete commerciale che la collegava con Pisa e Genova e con le maggiori piazze mercantili del mediterraneo occidentale, da cui provenivano spesso immigrati in qualità di maestranze qualificate.
Con l’arrivo dei catalano-aragonesi nel 1324 iniziarono una serie di trasformazioni e di congiunture che gettarono l’isola in una posizione di marginalità nei circuiti mercantili mediterranei.

Inizialmente l’occupazione aragonese non comportò immediate modificazioni strutturali dal punto di vista economico, ma ciò che mise in difficoltà l’isola fu il crollo demografico dovuto alla Peste nera e un’incessante attività militare che vedeva schierati da una parte i giudici di Arborea, già vassalli del re di Barcellona, e dall’altra la Corona catalano-aragonese. 
I pisani vennero espulsi da Cagliari e anche il raggio d’azione dei Genovesi subì una forte contrazione; pestilenze e guerre ridussero l‘attività produttiva della città, che da esportatrice di grano divenne importatrice. 
Dalla seconda metà del trecento e parte del quattrocento le rotte mercantili catalane iniziarono ad evitare l’isola, che venne interessata dall’aumento dei prezzi di alcuni prodotti come il grano, l’orzo, l’olio, il vino, con oscillazioni periodiche a seconda delle pestilenze. 
Grazie al corallo, il porto di Alghero divenne il principale scalo isolano, seguito da Cagliari. 
Fu in particolare la crisi arborense a scompaginare il mercato interno senza offrire un’alternativa valida ai Catalani. 
Quindi è così che dalla metà del 1300 la Sardegna andò incontro a un processo di marcato declino demografico, agricolo, minerario e commerciale in grado di produrre effetti negativi.

Nel corso del quattrocento vi fu un riassetto delle rotte. Dopo la crisi trecentesca iniziò una nuova espansione euro-mediterranea che trainò anche l'economia isolana verso la ripresa economica, sociale e culturale. 
La maggior parte dei mercanti che trattavano merci sarde apparteneva alla cerchia degli uomini d’affari di Firenze, a scapito dell'imprenditoria e della mercatura pisana e la cui élite mercantile-bancaria era ormai emigrata in Sicilia. Significativa fu invece la presenza di alcuni operatori economici catalani.
Nonostante la ripresa, l’economia sarda risultò ancora segnata dagli ultimi avvenimenti bellici e dallo spopolamento di città e campagne, incapace di convogliare verso la Toscana un flusso significativo di prodotti che non fossero quelli dell’economia pastorale e soprattutto di far crescere un nucleo locale di uomini d’affari pronti ad operare a livello extra-regionale.
Nella prima metà del 15° secolo, Cagliari e Alghero erano gli unici porti sardi toccati con regolarità dalla marina catalana, visti più come punti di rifornimenti obbligati per chi volesse raggiungere il Regno di Napoli da Barcellona, Valencia o Maiorca. 
L’unica merce di valore che i catalani prelevavano dalla Sardegna quattrocentesca per immetterla in circuiti commerciali di rilievo, fino ai porti del Levante, era il corallo acquistato ad Alghero.
Nella seconda metà del secolo rimase pressoché stabile l’importazione a Pisa di cuoia bovine e pelli ovine sarde non trattate, pronte per essere lavorate; anche la lana sarda veniva esportata in Toscana con una certa regolarità, segno quindi dell’aumento della capacità produttiva dell’isola in termini di allevamento ovino e di un miglioramento delle relazioni commerciali con il porto toscano. 
Sembrerebbe registrare in questa fase un certo calo il commercio del formaggio e quello del grano, che tornò ad occupare una posizione complementare agli altri grani mediterranei più rinomati e abbondanti. Quella sarda si confermava comunque un’economia prevalentemente pastorale.

Nel 16° e 17° secolo le coste della Sardegna erano continuamente minacciate dagli attacchi barbareschi e con l’alleanza franco-turca (1535-1555) fu ancora di più esposta alla presenza delle flotte musulmane. Ecco quindi che per la Spagna divetò un avamposto difensivo, riservandole una delicata funzione strategica come punto di appoggio militare e come scalo intermedio per i rifornimenti delle truppe e delle squadre navali.
Per chi voleva raggiungere l’isola erano molte le incognite da sfidare, legate soprattutto alle condizioni meteorologiche e alla presenza dei pirati.
Il Mediterraeo si poteva percorrere, escludendo gli imprevisti, in 43 giorni, partendo da Barcellona e arrivando a Costantinopoli. Secondo un portolano del 1607 la rotta più agevole dalla Spagna per arrivare in Sardegna passava per le Baleari, per poi arrivare direttamente nell’isola scegliendo fra tre possibilità: arrivare fino al Golfo di Oristano; puntare verso nord al porto di Alghero; giungere al porto di Cagliari passando per l’Isola di San Pietro.
La rotta Genova - Cagliari era percorribile, Maestrale permettendo, tra i 15 e i 5 giorni.
A seconda del tipo di imbarcazione si riusciva a ridurre i tempi: la navigazione mercantile era più lenta rispetto alla rapidità delle fregate e delle galere, usate spesso per inviare avvisi urgenti, ordini militari e dispacci politici, riducendo così a pochi giorni i viaggi tra un punto e l’altro del mediterraneo.
Le imbarcazioni di piccolo cabotaggio permisero lo sviluppo del commercio marittimo tra Sardegna, penisola italiana e coste meridionali francesi: erano barconi, tartane, paranzelle, gondole, feluche, leuti, salette, galionetti ad approdare nei porti sardi e nelle piccole insenature che per loro natura non avevano bisogno di infrastrutture portuali, mantenendo i costi bassi e facendo della Sardegna la prima per esportazione di formaggio nel Mediterraneo, oltre il commercio di altri prodotti quali grano, carni salate, cuoi e altra merce.
Tra Cinquecento e Seicento il traffico marittimo mediterraneo era intenso e variegato, e la presenza di navi sarde, soprattutto dopo l'introduzione delle navi tonde, velieri e galere, che portarono evidenti vantaggi in termini di velocità, testimonia che l’isola fosse un crocevia marittimo oggettivamente obbligato, una terra di frontiera, ma anche punto vivace di scambi e contatti.
I porti dell’isola erano ancora pochi in quel periodo e dotati di attrezzature insufficienti: questa inadeguatezza strutturale e l’insicurezza dei mari dovuta alla guerra di corsa erano individuate dagli osservatori del tempo come le cause principali del mancato sviluppo dell’isola. Questo mancato protagonismo dei porti sardi nel panorama mediterraneo era legato soprattutto alla povertà di risorse dell’entroterra agricolo e alla arretratezza infrastrutturale dei collegamenti interni.
Inoltre, le migliorie apportate agli scafi e allo sviluppo delle tecniche veliche fecero delle nuove imbarcazioni dei mezzi più competitivi e veloci, e gli scali intermedi come quelli dell’isola iniziarono ad essere meno indispensabili rispetto al passato come punti di rifornimento di viveri e acqua. L’ esclusione dei piccoli porti dal circuito commerciale e dei traffici non fu, come si crede, risultato di una congiura da parte delle altre potenze, ma conseguenza di un’espansione dell’attività economica sempre più competitiva.
Bisogna poi considerare che la Catalogna usciva da una prolungata crisi economica e sociale che influì sulle sue scelte economiche, spostando gradualmente i suoi interessi commerciali nell’Atlantico, destinando la Sardegna a un ruolo secondario nello scenario geografico degli scambi internazionali. Questa più marcata internazionalizzazione dei traffici, che andava sempre più imponendosi, richiedeva una specifica politica economica mercantilistica e operazioni finanziarie complesse, ma la Sardegna non aveva le premesse strutturali per l’affermazione di un imprenditorialità locale di questo livello, portatrice di un’inclinazione mentale adeguata e di capitali.
Nella seconda metà del 1600 il 46% delle merci che sbarcavano nel porto di Cagliari erano francesi o provenivano dalla Francia, il 25% era genovese, il 13% arrivava dai regni della Corona d’Aragona e il 9% da Napoli e Sicilia, il restante 6% era cabotaggio locale. 
Tra questi carichi predominava il vino, spesso sardo, poi il legname, l’olio, il ferro, le sardine.
Anche in uscita ben il 52% delle merci è diretto in Francia, il 17% a Genova, il 13% verso i Regni della Corona d’Aragona, l’8% a Napoli e Sicilia, il 2% esportazioni locali e 9% nordiche. Tra queste merci predominava il frumento, i derivati tipo pasta e semola e i legumi; un 33% erano prodotti d’allevamento; poco incidente il vino.
I mezzi più usati erano la tartara e la barca; l’intensità dei traffici rimase stabile, senza periodi vuoti, e dipendeva dalla natura delle merci.
In questo periodo si nota una contrazione del movimento portuale e la crescente dipendenza verso le altre linee mercantili, come quella francese, e l’allentarsi delle relazioni interne al sistema spagnolo erano probabilmente all’origine della sofferenza del commercio sardo.
A fine seicento si alternarono i buoni raccolti e le annate calamitose, per cui le esportazioni riuscirono a tenersi invariate. 
Poi nell’ultimo decennio si attenuarono le crisi agricole e si risollevò la capacità estrattiva. 
In questa fase si nota un calo dello scalo barcellonese e tra i porti sardi la preminenza di Cagliari venne messa in discussione da Porto Torres grazie al commercio del grano e dei prodotti delle peschiere. Un fine seicento segnato dall’emarginazione della Spagna sulla scena europea e da un allentamento della pressione fiscale che diede beneficio alla Sardegna.

Nel 1720 Vittorio Amedeo II di Savoia, re di Sicilia, cedette quest’ultima in cambio della Sardegna e prese a governarla con molto zelo attraverso la figura del viceré e diverse ordinanze per migliorare le condizioni in cui versava. Anche i suoi successori cercarono di intervenire con misure che potessero migliorare l’agricoltura, il commercio, la cultura, l’ordine pubblico e l’incremento demografico. 
Fallì l’impresa francese del 1792 di invadere la Sardegna, lasciata sguarnita dai Re sabaudi i sardi riuscirono comunque ad allontanarli. 
Nonostante i cambiamenti positivi portati dai nuovi sovrani, l’isola vide il declino del suo progresso, con nuove istituzioni ancora troppo deboli per fare a meno del sostegno del governo.

Età contemporanea

Negli anni 50 del ‘900 Alberto Mori e Benito Spano hanno collaborato con il Centro di studi per la geografia economica presso l’Istituto dell’Università di Napoli alle ricerche geografiche riguardanti i porti italiani, curando il 4° volume delle “Memorie di Geografia Economica” dedicato ai porti sardi, del 1952.
Negli anni ‘50 del Novecento vengono individuati 31 porti e approdi principali, tralasciando gli ancoraggi minori, dividendoli in sei sezioni principali secondo caratteristiche geografiche omogenee delle coste.

Bibliografia

- B. Anatra, A. Mattone, R. Turtas, L’età moderna dagli aragonesi alla fine del dominio spagnolo, Volume III;
Monografia storica dei porti dell’antichità nell’italia insulare, Ministero della Marina 1906;
- A. Mori, B. Spano, I porti della Sardegna, Vol. VI, Napoli 1952;
- A. della MarmoraViaggio in Sardegna, Volume I e Volume II di Geografia fisica e umana;
- S. Colomo, Sardegna un’isola un mondo , Editrice Archivio fotografico Sardo;
- A. Capitanio, G. Premoselli, Coste e approdi della Sardegna, SAGEP EDITRICE GENOVA;
Per il Porto di Cagliari, Camera di Commercio e Industria della Provincia di Cagliari, Stabilimento Tipografico Pietro Valdés;
Sardegna L’uomo e le coste, Banco di Sardegna.

 

Sitografia

Porti d'Italia
-Autorità Sistema Portuale Sardegna
DreamStime per alcune immagini dei porti
- COMUNITÀ RURALI NELLA SARDEGNA MEDIEVALE

Precedente Seguente