Francesco Ciusa alla Galleria Nazionale di Roma
Contenuto
Titolo
Francesco Ciusa alla Galleria Nazionale di Roma
Data di inizio
20/05/2020
Titolo originale
Francesco Ciusa alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma
Ambiti e contenuto
Studio delle opere di Francesco Ciusa a partire da La madre dell'ucciso, attualmente in esposizione presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma
Autore del documento
Marisa Mura
Lingua
Italiano
Condizioni che regolano l’accesso
Pubblico
Citazione bibliografica
Autore della riproduzione digitale
Formato
.html
ESC - Ente schedatore
Creatore
Francesca Melas
Data di creazione
22/06/2021
riassunto
La madre dell’ucciso
Scultura in bronzo realizzata per fusione dal modello originale in gesso (custodito presso la Galleria Comunale di Cagliari), acquistata dallo Stato in occasione della Biennale di Venezia del 1907 e attualmente in esposizione presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. E' l'opera che valse allo scultore Franceso Ciusa (Nuoro 1883 –Cagliari 1949) un successo di pubblico e consenso di critica clamorosi. Si tratta della raffigurazione di un'anziana paesana nuorese che indossa gli abiti tradizionali ed è seduta a terra, in una posizione rituale della veglia funebre, “Sa rja” (la riga), che prevedeva, nell'antico uso locale, la disposizione delle donne accovacciate intorno al focolare spento (Wagner 1960–64).
La scultura trovò ispirazione in un accadimento reale, di cui l'artista venne a conoscenza da bambino e l'opera ne accolse la forte suggestione che permase nella sua memoria. Il modellato ha una visione frontale, simmetrica nella posizione raccolta e chiusa della figura, con le gambe serrate verso il busto in un'immagine pietrificata, che rende, nella grande compostezza, la tragica rappresentazione del dolore nella fase di elaborazione del lutto. E' un'opera che guarda alla realtà, al vero, con accenti di un particolare espressionismo, a cui si unisce, attraverso il riferimento al mito, una valenza simbolica. Il vero è reso sapientemente attraverso la cura del particolare e una solida costruzione degli aspetti anatomici che denotano una buona conoscenza della statuaria rinascimentale, e “Il Rinascimento resterà spesso nell'opera di Ciusa come un'aspirazione di fondo, o meglio un sottofondo aulico” (Bossaglia, 1991). Quando realizzò l'opera a cui, nonostante il prosieguo della sua attività attesti alcuni veri capolavori, è principalmente dovuta la sua notorietà, l'artista aveva terminato da alcuni anni la sua formazione presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze, dove aveva avuto fra i suoi insegnanti il pittore macchiaiolo toscano Giovanni Fattori, ormai anziano, e lo scultore di origine siciliana Domenico Trentacoste. Aveva avuto inoltre occasione di stringere rapporti di amicizia con Plinio Nomellini e Galileo Chini e con gli scultori Lorenzo Viani e Libero Andreotti (Branca 1975). Il mondo di riferimento di questa scultura, ma lo sarà anche per gran parte della sua produzione successiva, è la Sardegna, dove non trova a livello delle arti figurative, un entroterra di riferimento, e sarà lui, specificamente per la scultura, a partecipare a quel “rito di fondazione” delle arti nell'Isola, che vide impegnati, agli inizi del Novecento, artisti e intellettuali. Egli adottò come inesauribile fonte di riferimento la vita rurale della sua gente, fra la quale era cresciuto e si era formato, e possedeva intelligenza, sensibilità e coraggio per inoltrarsi nelle profondità dolorose e abissali di quell'umanità sovrastata da una cultura arcaica, primitiva, ed emarginata dalla vita contemporanea. Ed è proprio in questa atemporalità che egli colloca i suoi personaggi investiti del mito, dando forma e dignità alla condizione esistenziale della sua gente attraverso la trasposizione plastica, nei modi che trovano riscontri letterari nel mondo umanamente tragico della Deledda, con cui il Ciusa fu in contatto ed ebbe scambi significativi. L'opera che era stata eseguita fra il 1906 e il 1907 venne esposta in un contesto in cui primeggiava il nudo con le opere di Rodin, Graziosi e del Lotto e in cui la scultura del Ciusa si collocava in posizione decisamente altra, espressione tragica e, nel contempo, di dignità e solennità ieratica. Fu una grande affermazione: Vittorio Pica, nel recensire l'esposizione del1907 parla di “un giovane Sardo, Francesco Ciusa, che esordisce nell'arte in modo davvero degno di richiamare su di lui l'attenzione degli intenditori, con una figura in gesso, grande al vero, di vecchia ed aggrinzita contadina, La madre dell’ucciso, di fin troppo minuziosa fattura realistica e di non comune efficacia espressiva” (Pica 1907). In maniera concisa Ugo Ojetti, voce di molto peso della critica italiana, rileva sul “Corriere della Sera”, come “Francesco Ciusa, un sardo ignoto finora alle grandi esposizioni, manda un gesso La madre dell’ucciso, così profondamente osservato, reso con tanta coscienza, costruito con tanta scienza che mi sembra la più importante rivelazione della mostra di scultura” (“Corriere della Sera” 2007). In Sardegna fu grande il clamore e l'entusiasmo di intellettuali ed amici, e in particolare lo scrittore e poeta sassarese Salvatore Ruju e il poeta nuorese Sebastiano Satta plaudirono al successo. Il riconoscimento ebbe forma istituzionale con l'acquisto della fusione in bronzo dal modello originale, da parte dello Stato, per la Galleria nazionale d'arte moderna, all'epoca allogata al piano superiore del Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale e diretta da Francesco Jacovacci che proseguiva nella linea ormai consolidata degli acquisti alle esposizioni nazionali (Pinto 2006). Mentre godeva del successo decretatogli alla Biennale veneziana gli venne offerto da un magnate americano di trasferirsi a New York, per dirigervi un centro dproduzione di arte pura e arti applicate; il consiglio del suo amico e sostenitore Sebastiano Satta, fu una sorta di sfida “Se sei debole parti, se sei forte ritorna”, forte tanto da affrontare le difficoltà che la vita in Sardegna gli avrebbe riservato. Lasciò la penisola, dove avrebbe potuto raccogliere i frutti di tanta popolarità e trovare un terreno culturalmente e economicamente più adatto alla sua attività. Tornò in Sardegna, accolto come cantore, celebratore della sua terra e figura di collegamento fra una cultura carica di primitiva bellezza e la contemporanea realtà peninsulare. Il pensiero e l'opera del Ciusa si unirono al fermento che in quegli anni dette luogo alla nascita dell'arte in Sardegna, che vide la partecipazione di artisti e intellettuali, consapevoli del precipuo patrimonio culturale dell'Isola, ma anche delle sue povertà e degrado e della conseguente urgenza di riscatto, al quale rivolsero il loro impegno. Dopo un soggiorno a Macomer Ciusa si trasferì a Cagliari dove svolse un'intensa attività che dette luogo alle sue opere migliori.
Scultura in bronzo realizzata per fusione dal modello originale in gesso (custodito presso la Galleria Comunale di Cagliari), acquistata dallo Stato in occasione della Biennale di Venezia del 1907 e attualmente in esposizione presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. E' l'opera che valse allo scultore Franceso Ciusa (Nuoro 1883 –Cagliari 1949) un successo di pubblico e consenso di critica clamorosi. Si tratta della raffigurazione di un'anziana paesana nuorese che indossa gli abiti tradizionali ed è seduta a terra, in una posizione rituale della veglia funebre, “Sa rja” (la riga), che prevedeva, nell'antico uso locale, la disposizione delle donne accovacciate intorno al focolare spento (Wagner 1960–64).
La scultura trovò ispirazione in un accadimento reale, di cui l'artista venne a conoscenza da bambino e l'opera ne accolse la forte suggestione che permase nella sua memoria. Il modellato ha una visione frontale, simmetrica nella posizione raccolta e chiusa della figura, con le gambe serrate verso il busto in un'immagine pietrificata, che rende, nella grande compostezza, la tragica rappresentazione del dolore nella fase di elaborazione del lutto. E' un'opera che guarda alla realtà, al vero, con accenti di un particolare espressionismo, a cui si unisce, attraverso il riferimento al mito, una valenza simbolica. Il vero è reso sapientemente attraverso la cura del particolare e una solida costruzione degli aspetti anatomici che denotano una buona conoscenza della statuaria rinascimentale, e “Il Rinascimento resterà spesso nell'opera di Ciusa come un'aspirazione di fondo, o meglio un sottofondo aulico” (Bossaglia, 1991). Quando realizzò l'opera a cui, nonostante il prosieguo della sua attività attesti alcuni veri capolavori, è principalmente dovuta la sua notorietà, l'artista aveva terminato da alcuni anni la sua formazione presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze, dove aveva avuto fra i suoi insegnanti il pittore macchiaiolo toscano Giovanni Fattori, ormai anziano, e lo scultore di origine siciliana Domenico Trentacoste. Aveva avuto inoltre occasione di stringere rapporti di amicizia con Plinio Nomellini e Galileo Chini e con gli scultori Lorenzo Viani e Libero Andreotti (Branca 1975). Il mondo di riferimento di questa scultura, ma lo sarà anche per gran parte della sua produzione successiva, è la Sardegna, dove non trova a livello delle arti figurative, un entroterra di riferimento, e sarà lui, specificamente per la scultura, a partecipare a quel “rito di fondazione” delle arti nell'Isola, che vide impegnati, agli inizi del Novecento, artisti e intellettuali. Egli adottò come inesauribile fonte di riferimento la vita rurale della sua gente, fra la quale era cresciuto e si era formato, e possedeva intelligenza, sensibilità e coraggio per inoltrarsi nelle profondità dolorose e abissali di quell'umanità sovrastata da una cultura arcaica, primitiva, ed emarginata dalla vita contemporanea. Ed è proprio in questa atemporalità che egli colloca i suoi personaggi investiti del mito, dando forma e dignità alla condizione esistenziale della sua gente attraverso la trasposizione plastica, nei modi che trovano riscontri letterari nel mondo umanamente tragico della Deledda, con cui il Ciusa fu in contatto ed ebbe scambi significativi. L'opera che era stata eseguita fra il 1906 e il 1907 venne esposta in un contesto in cui primeggiava il nudo con le opere di Rodin, Graziosi e del Lotto e in cui la scultura del Ciusa si collocava in posizione decisamente altra, espressione tragica e, nel contempo, di dignità e solennità ieratica. Fu una grande affermazione: Vittorio Pica, nel recensire l'esposizione del1907 parla di “un giovane Sardo, Francesco Ciusa, che esordisce nell'arte in modo davvero degno di richiamare su di lui l'attenzione degli intenditori, con una figura in gesso, grande al vero, di vecchia ed aggrinzita contadina, La madre dell’ucciso, di fin troppo minuziosa fattura realistica e di non comune efficacia espressiva” (Pica 1907). In maniera concisa Ugo Ojetti, voce di molto peso della critica italiana, rileva sul “Corriere della Sera”, come “Francesco Ciusa, un sardo ignoto finora alle grandi esposizioni, manda un gesso La madre dell’ucciso, così profondamente osservato, reso con tanta coscienza, costruito con tanta scienza che mi sembra la più importante rivelazione della mostra di scultura” (“Corriere della Sera” 2007). In Sardegna fu grande il clamore e l'entusiasmo di intellettuali ed amici, e in particolare lo scrittore e poeta sassarese Salvatore Ruju e il poeta nuorese Sebastiano Satta plaudirono al successo. Il riconoscimento ebbe forma istituzionale con l'acquisto della fusione in bronzo dal modello originale, da parte dello Stato, per la Galleria nazionale d'arte moderna, all'epoca allogata al piano superiore del Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale e diretta da Francesco Jacovacci che proseguiva nella linea ormai consolidata degli acquisti alle esposizioni nazionali (Pinto 2006). Mentre godeva del successo decretatogli alla Biennale veneziana gli venne offerto da un magnate americano di trasferirsi a New York, per dirigervi un centro dproduzione di arte pura e arti applicate; il consiglio del suo amico e sostenitore Sebastiano Satta, fu una sorta di sfida “Se sei debole parti, se sei forte ritorna”, forte tanto da affrontare le difficoltà che la vita in Sardegna gli avrebbe riservato. Lasciò la penisola, dove avrebbe potuto raccogliere i frutti di tanta popolarità e trovare un terreno culturalmente e economicamente più adatto alla sua attività. Tornò in Sardegna, accolto come cantore, celebratore della sua terra e figura di collegamento fra una cultura carica di primitiva bellezza e la contemporanea realtà peninsulare. Il pensiero e l'opera del Ciusa si unirono al fermento che in quegli anni dette luogo alla nascita dell'arte in Sardegna, che vide la partecipazione di artisti e intellettuali, consapevoli del precipuo patrimonio culturale dell'Isola, ma anche delle sue povertà e degrado e della conseguente urgenza di riscatto, al quale rivolsero il loro impegno. Dopo un soggiorno a Macomer Ciusa si trasferì a Cagliari dove svolse un'intensa attività che dette luogo alle sue opere migliori.
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