La madre dell’ucciso
Contenuto
Titolo
La madre dell’ucciso
Data di inizio
March 17, 2019
Titolo originale
La madre dell’ucciso
Ambiti e contenuto
Articolo sull'episodio di cronaca che ispirò Francesco Ciusa nella realizzazione della scultura La madre dell'ucciso
Autore del documento
Filippo Innocenti
Lingua
Italiano
Condizioni che regolano l’accesso
Pubblico
Citazione bibliografica
Autore della riproduzione digitale
Formato
.html
ESC - Ente schedatore
Creatore
Francesca Melas
Data di creazione
23/06/2021
Identificativo
qualitative product or service property (0..*)
Articolo di Pagina Web
riassunto
E’ il 3 luglio del 1897. Nelle campagne di Nuoro si consuma un brutale omicidio. A morire è un giovane di poco più di trent’anni, il suo nome è Mauro Manca, ma nessuno lo chiama così. E’ conosciuto come “Muredda”, e ad ammazzarlo è stato un bandito di Orgosolo, tale Giuseppe Lovicu, pare con la complicità di due delinquenti come lui, Elias e Giacomo Serra Sanna. Gliel’avevano giurata, gli assassini, dopo che la sua testimonianza li aveva fatti condannare al carcere in un processo per un furto di maiali. «Il cadavere era disteso supino in mezzo al grano, la camicia aperta sino all’addome, le braccia aperte come Cristo, tenendo ancora in mano la falce». A parlare è Francesco Ciusa, a quel tempo appena quattordicenne. Quel mattino s’era sparsa la voce che avevano ammazzato uno dalle parti di Tertilo e il ragazzo non aveva saputo resistere alla tentazione di vedere il corpo. Appena arrivato sul posto, s’era imbattuto nell’immagine di una donna “urlante, come ombra nera di malaugurio” che gli era sbucata davanti mentre si precipitava incontro al cadavere del giovane morto, suo figlio.
L’impressione che l’episodio suscita in Francesco è enorme. Gli ci vorranno anni a elaborarla, ma non lo abbandonerà più. Più tardi, Francesco diventerà un grande artista. La scultura è la sua passione e i genitori, per assecondarla, lo mandano a Firenze a studiare, beneficiando anche di un sussidio di cui l’ha provvisto il municipio di Nuoro. Negli anni a cavallo fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, egli può così frequentare l’Accademia delle Belle Arti nel capoluogo toscano ed entrare in contatto con alcuni dei grandi artisti che la animano, fra cui l’anziano Giovanni Fattori. Il realismo, il simbolismo e l’arte rinascimentale esercitano una profonda influenza su di lui. Così come le idee anarchiche, il socialismo e le lotte operaie che a quell’epoca si combattevano un po’ su tutto il territorio nazionale. Ma nel profondo del suo cuore è sempre la sua terra, la Sardegna, a dominare. Vi è tornato dopo l’esperienza fiorentina e ha cominciato a raccontarla con la sua arte.
Dopo una prima esposizione a Nuoro, in cui le sue opere destano un certo interesse, la grande occasione gli si presenta con la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1907.
Francesco decide di presentarsi accompagnato da ciò che ha di più caro: i miti, i simboli, le angosce e l’enorme vitalità di casa sua. E riesce, miracolosamente, a racchiuderli tutti in una scultura, che quasi magicamente li contiene e li moltiplica in sé. “La madre dell’ucciso”, si intitola, e rappresenta la maniera, per il giovane artista, di rispondere a quel bisogno impellente che sente crescere dentro di sé da quel giorno di dieci anni prima in cui il lamento di Grazia Puxeddu, la “vera” madre dell’ucciso, gli è parso ospitare l’universo di dolore e la voce di una terra intera.
E’ morta nel 1905, Grazia, senza che Francesco potesse osservarla quanto voleva per carpirne l’intimo segreto da infondere nella sua statua. Ha dovuto rivolgersi a un’altra donna, per realizzarla, ma quella statua parla di lei, è lei.
Nella sua opera, Francesco incarna la Sardegna, la potenza selvaggia e primordiale che preme nelle sue viscere e si manifesta, di tanto in tanto, in grandiose opere d’arte che fanno scoprire al mondo il suo fascino senza tempo.
Il grido di Grazia, che ancora lacera la memoria dell’artista, si trasfigura nella sua opera in un silenzio cosmico. «Non ho avuto più pace, mi aveva preso la smania di raccontare quel silenzio del nostro tempo tragico, che abbiamo vissuto da soli», racconterà in seguito Francesco. Quel silenzio simbolico, che racconta dell’isolamento dell’isola, della sua solitudine ancestrale, le vicende senza tempo che ne animano ogni sasso, ne colmano ogni recesso, si esprime nelle labbra ostinatamente serrate della donna, nel capo chino e nello sguardo sfuggente dei suoi occhi bassi, confitti in una terra cui ella sente di appartenere completamente. La donna viene colta nell’atto di compiere la rituale veglia funebre detta “Sa rja”, accoccolata su di un focolare ormai spento, quasi a impersonare l’archetipo stesso della madre che veglia sul focolare domestico fino alla fine, anche quando esso è definitivamente estinto.
Il successo, alla Biennale, è clamoroso. Il grande critico Ugo Ojetti, addirittura, dice di lui: “Francesco Ciusa, un sardo ignoto finora alle grandi esposizioni, manda un gesso La madre dell’ucciso, così profondamente osservato, reso con tanta coscienza, costruito con tanta scienza che mi sembra la più importante rivelazione della mostra di scultura”.
Grazie all’arte dei suoi figli, la Sardegna si appresta a integrarsi nel panorama nazionale. Qualche anno prima, nel 1903, era stata Grazia Deledda, con la pubblicazione di Elias Portolu, a cominciare a squarciare il velo che la separava dal resto d’Italia. E sarà Salvatore Satta, nel 1977, a completare questo processo, regalando al mondo il suo capolavoro, “Il giorno del giudizio”, che si incaricherà di svelare per intero l’essenza del mondo tragico e senza tempo della terra selvaggia per antonomasia.
Nel mezzo, la madre di Ciusa ha consentito al filo rosso che lega epoche e storie diverse di non essere reciso. Alla Sardegna, di non scomparire di nuovo.
L’impressione che l’episodio suscita in Francesco è enorme. Gli ci vorranno anni a elaborarla, ma non lo abbandonerà più. Più tardi, Francesco diventerà un grande artista. La scultura è la sua passione e i genitori, per assecondarla, lo mandano a Firenze a studiare, beneficiando anche di un sussidio di cui l’ha provvisto il municipio di Nuoro. Negli anni a cavallo fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, egli può così frequentare l’Accademia delle Belle Arti nel capoluogo toscano ed entrare in contatto con alcuni dei grandi artisti che la animano, fra cui l’anziano Giovanni Fattori. Il realismo, il simbolismo e l’arte rinascimentale esercitano una profonda influenza su di lui. Così come le idee anarchiche, il socialismo e le lotte operaie che a quell’epoca si combattevano un po’ su tutto il territorio nazionale. Ma nel profondo del suo cuore è sempre la sua terra, la Sardegna, a dominare. Vi è tornato dopo l’esperienza fiorentina e ha cominciato a raccontarla con la sua arte.
Dopo una prima esposizione a Nuoro, in cui le sue opere destano un certo interesse, la grande occasione gli si presenta con la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1907.
Francesco decide di presentarsi accompagnato da ciò che ha di più caro: i miti, i simboli, le angosce e l’enorme vitalità di casa sua. E riesce, miracolosamente, a racchiuderli tutti in una scultura, che quasi magicamente li contiene e li moltiplica in sé. “La madre dell’ucciso”, si intitola, e rappresenta la maniera, per il giovane artista, di rispondere a quel bisogno impellente che sente crescere dentro di sé da quel giorno di dieci anni prima in cui il lamento di Grazia Puxeddu, la “vera” madre dell’ucciso, gli è parso ospitare l’universo di dolore e la voce di una terra intera.
E’ morta nel 1905, Grazia, senza che Francesco potesse osservarla quanto voleva per carpirne l’intimo segreto da infondere nella sua statua. Ha dovuto rivolgersi a un’altra donna, per realizzarla, ma quella statua parla di lei, è lei.
Nella sua opera, Francesco incarna la Sardegna, la potenza selvaggia e primordiale che preme nelle sue viscere e si manifesta, di tanto in tanto, in grandiose opere d’arte che fanno scoprire al mondo il suo fascino senza tempo.
Il grido di Grazia, che ancora lacera la memoria dell’artista, si trasfigura nella sua opera in un silenzio cosmico. «Non ho avuto più pace, mi aveva preso la smania di raccontare quel silenzio del nostro tempo tragico, che abbiamo vissuto da soli», racconterà in seguito Francesco. Quel silenzio simbolico, che racconta dell’isolamento dell’isola, della sua solitudine ancestrale, le vicende senza tempo che ne animano ogni sasso, ne colmano ogni recesso, si esprime nelle labbra ostinatamente serrate della donna, nel capo chino e nello sguardo sfuggente dei suoi occhi bassi, confitti in una terra cui ella sente di appartenere completamente. La donna viene colta nell’atto di compiere la rituale veglia funebre detta “Sa rja”, accoccolata su di un focolare ormai spento, quasi a impersonare l’archetipo stesso della madre che veglia sul focolare domestico fino alla fine, anche quando esso è definitivamente estinto.
Il successo, alla Biennale, è clamoroso. Il grande critico Ugo Ojetti, addirittura, dice di lui: “Francesco Ciusa, un sardo ignoto finora alle grandi esposizioni, manda un gesso La madre dell’ucciso, così profondamente osservato, reso con tanta coscienza, costruito con tanta scienza che mi sembra la più importante rivelazione della mostra di scultura”.
Grazie all’arte dei suoi figli, la Sardegna si appresta a integrarsi nel panorama nazionale. Qualche anno prima, nel 1903, era stata Grazia Deledda, con la pubblicazione di Elias Portolu, a cominciare a squarciare il velo che la separava dal resto d’Italia. E sarà Salvatore Satta, nel 1977, a completare questo processo, regalando al mondo il suo capolavoro, “Il giorno del giudizio”, che si incaricherà di svelare per intero l’essenza del mondo tragico e senza tempo della terra selvaggia per antonomasia.
Nel mezzo, la madre di Ciusa ha consentito al filo rosso che lega epoche e storie diverse di non essere reciso. Alla Sardegna, di non scomparire di nuovo.
Licenza d'uso
Libera
Collezione
Annotazioni
There are no annotations for this resource.