di Eva Garau
«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano»
Con queste parole si apre la dichiarazione con la quale, il 9 maggio 1950, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman proponeva l’istituzione della CECA, di fatto il primo passo nel processo di creazione di una “federazione europea”. L’opportunità di porre sotto una stessa Autorità l’intera produzione franco-tedesca di acciaio e di carbone, lasciando agli altri paesi europei la possibilità di aderire all’accordo, veniva presentata come un’occasione per sostituire a quella rivalità in campo economico, che aveva concorso all’avvento della guerra, una «solidarietà di fatto», frutto di «realizzazioni concrete».
In quell’Europa “organizzata e vitale, quell’Europa che infine “non si era fatta”, il ministro identificava la garanzia per il mantenimento di relazioni internazionali pacifiche e la condizione necessaria per cambiare il destino di quelle regioni impegnate a lungo in produzioni belliche delle quali avevano finito per essere, esse stesse, vittime. Questa fusione di interessi, il cui approdo era indicato per la prima volta nell’unificazione economica, rappresentava uno snodo cruciale nel dialogo, non sempre privo di contraddizioni e ripensamenti, tra le nazioni che vi avevano preso parte, e, al tempo stesso, una pietra miliare nella creazione dell’Unione europea.
La data del 9 maggio (dal 1985 “Giornata dell’Europa”) sembra ricorrere nella storia delle origini dell’Unione. Un altro 9 maggio, quello del 1948, aveva segnato una tappa importante nel dibattito sul futuro del continente europeo. Ne era stato protagonista l’ex-primo ministro britannico Winston Churchill, che, dopo l’inaspettata sconfitta alle elezioni del ’45, aveva consegnato un paese pronto a lasciarsi alle spalle gli anni bui della guerra ai laburisti di Attlee. Nel maggio 1948, Churchill aveva partecipato ai lavori del Consiglio d’Europa dell’Aia, del quale era presidente onorario. Oltre all’intervento ufficiale nella seduta del 7 maggio, rimane un discorso ai giovani universitari di Amsterdam tenuto, appunto, due giorni dopo e poi rimasto a indicare un momento fondativo di istituzioni quali il Consiglio d’Europa a Strasburgo e il Collegio d’Europa a Bruges.
Il segretario Tory era allora già un punto di riferimento nel dibattito sull’Europa. Nel 1930 aveva espresso la sua visione in un articolo (The United States of Europe) pubblicato dal «Saturday Evening Post»; negli Quaranta, influenzato dal dialogo con Jean Monnet e dalla minaccia dell’avanzata nazista in Francia, aveva delineato un modello di “unione franco britannica” con parlamento ed esercito comuni; il 21 marzo 1943, in un messaggio radiofonico trasmesso dalla BBC, aveva auspicato la nascita di un “Consiglio d’Europa”. Il 5 marzo 1946, all’Università di Fulton, Missouri, per la prima volta aveva fissato nel linguaggio e nell’immaginario collettivo la potenza evocativa di una cortina di ferro che dal Baltico all’Adriatico era calata sul continente. Nel settembre dello stesso anno, a Zurigo, aveva riproposto con forza la questione europea, individuando nella riconciliazione franco-tedesca la condizione necessaria per un processo di unificazione. Mentre invitava il generale De Gaulle a “prendere per mano la Germania”, nel 1947, con il genero e parlamentare conservatore Duncan Sundays, fondava lo United Europe Movement, nato per sostenere la causa europeista e promuoverla presso l’opinione pubblica.
Il discorso del 9 maggio agli studenti incarna appieno lo spirito di quella visione che Schuman avrebbe proposto dell’Europa. All’orgoglio delle singole identità nazionali, aveva sostenuto Churchill, si sarebbe potuto affiancare un senso di appartenenza europeo, senza che questo comportasse alcun conflitto né una cessione di sovranità nazionale. Timore, quest’ultimo, che avrebbe giocato un ruolo determinante nella relazione travagliata della Gran Bretagna con l’Unione. .
Se oggi Churchill viene ricordato come uno dei padri dell’Europa, al trattato di Parigi del 1951, che siglava la nascita della CECA così come Schuman l’aveva immaginata, la Gran Bretagna fu la grande assente. La mancata adesione a un accordo che vide tra i paesi fondatori, oltre alla Francia, Germania occidentale, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, rappresenta un epilogo affatto scontato, determinato, da un lato, dal sospetto del governo laburista, intenzionato a nazionalizzare le industrie pesanti del paese; dall’altro, dal fatto che Churchill stesso si fosse opposto con poca determinazione al corso egli eventi. Un atteggiamento che si spiega oggi con l’ambiguità di un’idea di Europa nella quale la Gran Bretagna aveva ritagliato per sé un ruolo esterno, che non mettesse in discussione i suoi rapporti privilegiati con il Commonwealth e con gli Stati Uniti.
Questo approccio avrebbe determinato l’assenza o una partecipazione spesso polemica del Regno Unito ad altri tavoli europei, nonché, in tempi più recenti, con il referendum del 23 giugno 2016 e la vittoria del fronte Leave, la fine di un percorso accidentato all’interno dell’Unione. L’eredità di Churchill, da Fulton alla Brexit, sta tutta nel celebre passaggio del discorso di Zurigo: «We are in Europe but not of it».