di Giampaolo Salice
Da secoli la Russia è protagonista di primo piano della storia globale. Esprime una civiltà difficile da leggere con le attuali categorie di marca nazionale. La Russia è una civiltà autogenerata dalla colonizzazione interna che tra XVI e XVIII secolo ha cambiato per sempre gli equilibri ambientali e demici di spazi sterminati, dal Baltico al Mediterraneo, dai Carpazi fino al Pacifico, distruggendo interi ecosistemi, sradicando popolazioni, deportandone altre e assegnando la loro terra a coloni arrivati dalla Germania, dall’Europa, dai Mediterranei.
La colonizzazione interna russa è stata per l’Asia quello che gli europei occidentali sono stati per le Americhe, negli stessi tempi, per le stesse motivazioni, per gli stessi sogni: diventare grandi, arricchirsi, liberarsi e radicarsi. Come a Occidente, in Russia la conquista della terra è stata causa ed effetto della mescola tra forza militare, interessi economici con epos, mito, sentimento. Una mescola in grado di agglutinare popoli, lingue, religioni tra loro molto diverse intorno al trono degli zar, cesari di tutte le Russie.
Mentre la conquista di immensi ecosistemi conferiva agli zar un potere che pareva intangibile, indistruttibile, leviatano, la civiltà russa maturava un senso di sé controverso, dolorante, luminoso e tenebroso, speranzoso e disperato insieme, imperiale e subalterno allo stesso tempo.
La colonizzazione interna non fu solo conquista di territori e popoli, ma anche l’impianto di un ideale di grandezza inteso quale unica soluzione possibile al senso di frustrazione indotto dal mito delle origini della nazione Russa, secondo il quale essa sarebbe figlia di forestieri, di stranieri, di altri: sarebbe una colonia.
È una mitologia nazione potente, che matura a partire dal Settecento, proprio quando la Russia di Pietro il Grande si getta a Occidente, fonda Pietroburgo sul Baltico, la modella su Amsterdam con architetti italiani e francesi, dandole nome tedesco e abitanti stranieri. È la modernizzazione che per quella Russia equivaleva a europeizzazione, inseguimento del modello occidentale. Ancora una volta il grande impero degli zar cercava all’estero l’estetica, i simboli, le forme, persino la lingua (francese) della sua grandezza: si autocolonizzava per sentirsi europeo, per sentirsi civile, per sentirsi all’altezza.
L’invasione napoleonica è stato un trauma che ha cambiato tanto nella coscienza russa. Però questo senso di subalternità coloniale non è mai completamente scomparso. Il crollo dell’URSS e la successiva debolezza nei confronti dell’Occidente liberale l’hanno rinfocolato, costruendo il manto di consenso che ha sostenuto Putin fino ad oggi.
La crisi di cui siamo spettatori in questi giorni radica in moltissimi fattori. Ma un ruolo importante ancora oggi è giocato dal senso di frustrazione di una civiltà che è stata tenuta e si è tenuta ai bordi dell’Europa. Putin è il frutto di una nazione irrisolta, ancora tormentata dalle sue origini oscure, dal suo sentirsi periferica e isolata.
Negli anni passati un vivace dibattito si è aperto in Russia su questi temi. Si è acceso grazie a un libro, è stato partecipato da storici e altri intellettuali, ha investito il dibattito pubblico e dunque il piano politico. Quel dibattito testimoniava la centralità che la storia ha oggi per la lettura del presente. Una centralità drammaticamente ribadita nel discorso con cui, il 24 febbraio 2022, il presidente Putin ha provato a giustificare sul piano storico l’invasione dell’Ucraina.