di Luca Lecis
Grande senso civico, educazione, spessore intellettuale, politico e umano sono forse le caratteristiche più ricordate di un uomo libero che ha sacrificato la propria vita per la crescita democratica dell’Italia e che giustamente sono ricordate in ogni commemorazione.
Appare dunque giusto ricordare il grande statista democristiano oggi a 42 anni dalla sua tragica scomparsa.
Aldo Moro è stato un politico che si è speso senza remore fin dalla caduta del fascismo quando, con la fine della guerra, le masse italiane, tradizionalmente spettatrici, entrarono in politica con larga partecipazione, votando e discutendo di politica con passione.
Non è tuttavia facile raccontare la sua storia, soprattutto per la complessità del suo impegno politico. Impegno che lo vede da subito partecipante attivo in un partito, la Democrazia cristiana, protagonista della ripresa democratica, presto divenuto “il partito italiano” come lo ha definito Agostino Giovagnoli.
Un grande “contenitore” o “un collettivo dai molti volti” per usare l’espressione di Andrea Riccardi. È nella Dc che lentamente emerge la figura di Moro, personalità ricca e complessa, come uomo, credente, intellettuale, giurista, marito e padre di famiglia, oltre che politico.
Aspetti non secondari e per questo doveroso ricordarli: pur essendo profondamente dedito alla sua vocazione politica, Moro infatti non ha mai voluto essere un “politico di professione”.
Illuminante appare in tal senso la corposa biografia che il collega Guido Formigoni gli ha dedicato (Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino 2016), indispensabile punto di partenza per quanti vogliano scoprire e riscoprire la figura di Moro e così meglio comprendere l’articolato dibattito politico italiano degli anni Cinquanta-Settanta.
Un aspetto erroneamente spesso ritenuto marginale e poco noto è il personale impegno a costruire le premesse di una autonomia della Dc dalla Chiesa, costruito non sulla laicizzazione, ma sulla coscienza di un’assunzione di responsabilità del laicato, nel dialogo onesto con la comunità cristiana. La battaglia sul centro-sinistra (osteggiato dalla gerarchia) coincide con questo difficile processo, che ottiene risultati importanti.
Nonostante ciò, per molti anni l’immagine di Moro, almeno fino al suo rapimento, è stata quella di un politico ferocemente avverso tanto dalla destra – che lo accusava di essere un complice del Pci – che a sinistra, dove permaneva il topos narrativo del segretario Dc “involuto e oscuro custode degli arcani del potere”, “il pigro e levantino insabbiatore di ogni processo innovativo”, come lo descrissero Pasolini, Sciascia e Petri.
Ma chi era veramente Aldo Moro?
Nato il 23 settembre 1916 a Maglie, figlio d’insegnanti elementari, sin da giovanissimo fu militante nell’associazionismo religioso, distinguendosi sempre come un uomo pensoso e mite, caratteristica questa che si ritrova negli scritti dal carcere delle Brigate rosse.
Eppure Moro fu oggetto di un’«odio diffuso»: alla notizia del rapimento, il cardinal Giuseppe Siri, fiero avversario dell’apertura morotea ai socialisti prima e ai comunisti poi, affermò: «ha avuto quello che si meritava per aver trafficato con i comunisti»; il segretario di Stato americano Henry Kissinger lo considerava tortuoso e cedevole verso i comunisti e ne diffidava apertamente.
Cosa faceva paura di Aldo Moro? Nei suoi nemici c’era probabilmente la consapevolezza del suo “sguardo lungo” in grado realizzare progetti di cambiamento. Non era dunque solo un innocuo utopista o un predicatore qualunque, ma era percepito come più pericoloso di altri perché un vero statista. Il suo altissimo profilo politico è ben visibile nella storia d’Italia della seconda metà del Novecento: presidente del Consiglio per sette anni e in cinque governi; ministro degli Esteri per cinque anni; segretario della Dc per quattro anni. Forse unico, vero «cavallo di razza» della scuderia democristiana unitamente a Fanfani, di qualche anno più anziano.
Moro è stato il grande stratega della scena politica italiana: dal superamento del centrismo con l’apertura ai socialisti alla «solidarietà nazionale» (l’apertura ai comunisti). Scevro da protagonismi (quando fu rapito occupava il posto modesto di presidente del Consiglio nazionale Dc), amava più la persuasione che il leaderismo. Si esprimeva con discorsi complessi e articolati, talvolta ermetici, che invitavano a pensare e creavano consenso.
A Moro e Fanfani si deve la decisione di portare la politica in Rai con “Tribuna elettorale”, facendo parlare e interrogare i leader dei partiti. E mentre nella tumultuosa fine degli anni Sessanta iniziano a delinearsi all’orizzonte minacce golpiste, azioni terroristiche, reti oscure, vicende internazionali condizionanti, interventi della Chiesa, Moro cerca una sintesi tra spinte differenti.
È allo stesso tempo realista e visionario: «La gente pensa che abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto», confidò a Eugenio Scalfari, ma «il lavoro di sintesi è ancora più faticoso e incerto».
Se a distanza di 42 anni ancora permangono numerose zone d’ombra sul sequestro e sui 55 giorni della prigionia nelle carceri delle Brigate rosse – eventi che dopo il maggio del 1978 hanno irreparabilmente incrinato l’assetto politico italiano che si avviava verso la terza fase (dopo il centrismo e il centro-sinistra) – inalterata e attuale rimane la sua lezione politica.
La politica attuale potrebbe imparare dalla sua capacità di intuire i problemi storici senza farsi condizionare troppo dall’attualità, dalla sua volontà di usare in modo mite la parola e la ragione per ricondurre sempre le tensioni su un terreno di dialogo e crescita della democrazia, di una mediazione non finalizzata alla propria sopravvivenza, ma all’evoluzione sicura di un sistema fragile come la democrazia italiana.
2 commenti
Bravo! Totalmente condivisibile.Peccato che l’augurio finale non sia sufficientemente accolto e chi tenta di metterlo in pratica riceva un trattamento analogo al suo (naturalmente,per fortuna,non nell’epilogo finale).
Bravo! Totalmente condivisibile, anche se l’augurio finale rimane inascoltato.I pochi che ci provano subiscono la stessa sorte (naturalmente non l’epilogo atroce).
1 Trackback