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Corallo e corallatori

A cura di Filippo Astori


 

«Se puede encontrar en las marinas de Sardena mucho coral en los mares de la Ciudad de Bosa, Alguer, y Castell Aragones». Così nel 1612 il visitatore generale Martin Carrillo descrive l'abbondanza di corallo dei mari della Sardegna. Corallo che per qualità, varietà e bellezza delle colorazioni (principalmente rosso ma, in misura minore, anche rosa, nero e bianco) era richiestissimo sul mercato europeo e soprattutto in quello orientale.

La pesca di solito iniziava con l'arrivo della bella stagione, verso aprile, e terminava alla fine di settembre, intorno al giorno della festa di San Michele. L’imbarcazione sopra la quale veniva effettuata era un bastimento di piccola stazza, comunemente detto corallina, provvisto di un albero armato a vela latina e un numero variabile di remi sino a un massimo di dieci. Per estrarre il corallo dalle scogliere sommerse, l’equipaggio (solitamente da otto-dieci elementi) impiegava un particolare attrezzo di origine araba chiamato ingegno, formato da due aste in legno legate a croce e munite al centro di un'opportuna zavorra, mentre alle quattro estremità erano sospese una serie di piccole reti a forma di borsa. Una volta individuata la possibile presenza di un banco l’ingegno veniva quindi calato su di esso e trainato dalla barca affinché vi restasse impigliato il maggior quantitativo di corallo possibile.

Questa sezione dell’Atlante tenta di ricostruire diversi aspetti di questa pericolosa attività che, sin dai tempi più remoti, veniva praticata nei mari intorno alla Sardegna, focalizzandosi principalmente sui secoli dell’Età moderna.


Per approfondire

Doneddu G., La pesca del tonno e del corallo, in F. Manconi (a cura di), La società sarda in età spagnola. 2, Musumeci Editore, Quart, 1993, pp. 50–55.

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