Mentre la neonata colonia tabarchina di Carloforte muoveva i primi, incerti passi sotto la guida del duca di San Pietro, don Bernardino Genoves, una nuova opportunità (e potenziale minaccia) si profilava all'orizzonte: l'isola dell'Asinara. Le mire di Domenico Brunengo sul suo sfruttamento non tardarono a giungere alle orecchie del duca, il quale, con una missiva datata 28 maggio 1738 indirizzata direttamente al viceré, manifestò la sua ferma opposizione al progetto.
Le parole di don Bernardino risuonano come un grido d'allarme per la sopravvivenza stessa di Carloforte. L'isola di San Pietro, egli argomentava, era "intrattabile" e "intieramente inutile" a causa della mancanza di terre coltivabili. I coloni, presto o tardi, sarebbero stati costretti ad abbandonarla per cercare lavoro nei terreni di altri baroni. In questo scenario, la cessione dell'Asinara rappresentava un errore fatale. L'arrivo di altri pescatori di corallo stranieri avrebbe inevitabilmente generato "dissonanza" nella preziosa attività di pesca, mentre la prospettiva di terre fertili e ricchi banchi corallini avrebbe irrimediabilmente spinto i tabarchini ad abbandonare Carloforte per la più promettente Asinara.
Per scongiurare questo "disastro", Genoves avanzava una proposta audace: popolare l'Asinara a proprie spese con cinquecento "forestieri". I pastori sardi già presenti sull'isola sarebbero stati allontanati, e nel caso in cui si fosse deciso di mantenerli, non avrebbero goduto di alcuna franchigia. I nuovi coloni, specificava il duca, non sarebbero stati né corsi né greci, bensì esclusivamente genovesi e tabarchini, "nazioni peritissime" sia nell'agricoltura che nella marineria. Don Bernardino sottolineava la sua intenzione di procedere con calma, consapevole che "la premura non lascia profittare delle buone occasioni", impegnandosi a condurre le sue "coralline" all'Asinara entro due anni. Non avanzava richieste di agevolazioni fiscali per le esportazioni, ma sollecitava la facoltà di mantenere il suo tribunale feudale soggetto alla Reale Udienza di Cagliari, sottraendolo alla giurisdizione della Governazione di Sassari.
La proposta del duca di San Pietro trovò terreno fertile presso il governo, che accantonò il piano di Monteleone e, per mano dell'intendente generale Castellamont, ne formulò uno alternativo il 30 agosto 1738. In questa nuova fase, un ruolo chiave fu giocato dalla comunità tabarchina stessa. Giacomo Rombi, uno dei capi di Carloforte, fu convocato e gli fu richiesto un parere scritto sul progetto. Attraverso di lui, i tabarchini si inserirono attivamente nella trattativa per l'Asinara. Non è da escludere che fossero state proprio le loro pressioni a spingere l'intervento di Genoves sul governo. Un indizio in tal senso giunge dal console francese a Cagliari, Joseph Paget, secondo il quale erano proprio i tabarchini a chiedere con insistenza di potersi trasferire all'Asinara, a fronte delle grandi difficoltà incontrate nella fondazione di Carloforte.
Evidentemente, a Cagliari e a Torino si riconosceva il valore dell'esperienza di questa gente di mare, esperta nella pesca del corallo, nel commercio e nella navigazione. Un'attenzione che i tabarchini cercarono di sfruttare per dare concretezza al loro desiderio di una vita più libera e prospera rispetto a quella vissuta a Tabarca.
Il parere di Giacomo Rombi al governo sardo delineava una visione ambiziosa per l'Asinara. Suggeriva di erigere case a due piani per ospitare due famiglie ciascuna. La pesca del corallo, egli sottolineava, sarebbe stata "il primo e principale affare", considerando i "grandiosi vantaggi" ottenuti dai numerosi pescatori stranieri che annualmente sfruttavano i banchi dell'isola. Rombi riteneva, tuttavia, che i profitti dei tabarchini e degli altri pescatori provenienti dalle riviere di Genova sarebbero stati persino superiori, poiché, a differenza degli stranieri che stazionavano solo per alcuni mesi, i tabarchini avrebbero potuto pescare tutto l'anno, "senza avere il scomodo di andare e venire" e senza il rischio di tempeste o incursioni piratesche. Non solo i corallari tabarchini, ma anche quelli delle riviere genovesi, si mostravano "bene inclinati" al trasferimento, portando con sé bastimenti, strumenti da pesca e le proprie famiglie, forti della loro conoscenza pregressa dell'Asinara. Oltre ad essere abili pescatori, Rombi li descriveva come ottimi agricoltori.
Pur riconoscendo la necessità di un investimento iniziale di circa tremila lire genovesi all'anno per armare una "corallina", Rombi assicurava che tale spesa sarebbe stata facilmente recuperata. I costi, inoltre, avrebbero potuto essere ridotti costruendo altre imbarcazioni direttamente sull'isola, sfruttando le risorse boschive locali. L'incremento dei profitti, aggiungeva, sarebbe stato ancora maggiore lavorando il corallo direttamente sull'Asinara. Per avviare questa industria, si sarebbero fatti arrivare "de’ pratici" e si sarebbero potute impiegare "le donne e figlie con li fanciulli", il cui mantenimento in Sardegna sarebbe stato notevolmente inferiore rispetto al loro lavoro nelle filande di Genova.
La colonia dell'Asinara avrebbe potuto diventare ancora più redditizia, secondo Rombi, se ai tabarchino-liguri fosse stata concessa la possibilità di introdurre alcune tonnare e la produzione del sale, di produrre "scabecci d’altri pesci minuti [...] di cui si fa buon consumo a Genova", e di pescare anche "pesci minuti" e "sardelle et alici", da rivendere a Genova, in Lombardia "et altri luoghi", dove questi generi erano molto richiesti, soprattutto a causa dell'esaurimento dei banchi nelle "marine dove prima erano abbondantissime".
La visione tabarchina di questa potenziale "azienda marittima" prevedeva anche l'innesto dei "moltissimi alberi d’olivi selvatici" presenti sull'isola, in grado di produrre olio sufficiente per il fabbisogno dei coloni e per la produzione di sapone, un bene che il Regno di Sardegna importava a caro prezzo da Genova e dalla Francia. L'isola avrebbe inoltre consentito l'esportazione di carni salate, molto richieste a Genova, in Francia e a Livorno. Con i copiosi raccolti di grano, si sarebbero potuti produrre biscotti e pane da rivendere. Infine, per il benessere della colonia, Rombi suggeriva la costruzione di magazzini per i pescatori, un ospedale con un chirurgo, una sartoria e sarti per le "coralline", seguendo il modello già in uso a Tabarca.
La contesa per l'Asinara si profilava dunque come uno scontro di interessi e visioni, con i tabarchini pronti a sfruttare la loro esperienza e la loro intraprendenza per trasformare quest'isola in una nuova, prospera "casa".