A cura di Beatrice Schivo
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La modalità di liberazione più frequente per gli schiavi nel regno di Sardegna era la cosiddetta talla. Si trattava di un accordo tra padrone e schiavo che prevedeva un compenso in denaro da pagarsi in un periodo di tempo in cui lo schiavo avrebbe dovuto fornire determinate prestazioni.
La taglia poneva lo schiavo in una nuova condizione: uno stato di transizione tra la schiavitù e la libertà, uno stato sospeso di schiavitù che poteva portare - se le condizioni imposte fossero state rispettate - alla libertà o, in caso contrario, ricondurre alla totale schiavitù. Si trattava più di uno stato di schiavitù sospesa che non di libertà anticipata. Lo schiavo a cui veniva concessa la taglia veniva chiamato "attallato" e, talvolta poteva essere definito liberto.
Per stipulare contratti di talla il padrone e lo schiavo convenivano davanti a un pubblico notaio e davanti ad alcuni testimoni, concordando e accettando dei capitoli che precisavano i doveri dell'una e dell'altra parte. Normalmente si stabiliva inizialmente la durata del contratto di taglia che aveva inizio dal giorno dell'atto notarile: tre, cinque, sei, otto anni le durate più comuni. In seguito si fissava la cifra che il captivo avrebbe dovuto versare al padrone per il proprio riscatto: comunemente si trattava dello stesso prezzo che il padrone aveva pagato per acquistare lo schiavo. Si precisava subito che lo schiavo avrebbe dovuto pagare il proprio riscatto entro gli anni stabiliti e, se entro quei tempi non avesse ancora dato quanto dovuto, avrebbe dovuto continuare a servire alle stesse condizioni finché non avesse terminato il pagamento.
Per racimolare l'intera cifra dovuta gli schiavi potevano ricorrere al prestito, totale o parziale, da parte di mercanti, altri schiavi, liberti o capitani di navi. Questo a meno che l'accordo di taglia non ne prevedesse esplicitamente il divieto e specificasse che il denaro del riscatto dovesse essere esclusivamente il frutto di giornate lavorate e, dunque, denaro guadagnato e non prestato. Infatti, dopo aver svolto tutti i suoi compiti in casa del padrone, allo schiavo era spesso concessa la possibilità di svolgere altri lavori in autonomia per guadagnare il denaro necessario al pagamento del riscatto.
In seguito si apriva la sezione delle condizioni della taglia. La struttura di questi accordi ricorreva spesso nelle stesse modalità, con qualche variazione da caso a caso nei dettagli delle condizioni imposte dai proprietari.
Lo schiavo doveva impegnarsi a prestare i servizi gli fossero stati comandati sia di giorno che di notte, servizi che talvolta venivano specificati (come andare a prendere l'acqua alla fonte o a comprare ciò che serviva al padrone); doveva impegnarsi a non fuggire, a non ubriacarsi, a non rubare né in casa del padrone né altrove. Spesso veniva specificato che doveva rientrare nella casa del padrone "entro il rintocco della preghiera della sera".
A sua volta il padrone si impegnava a nutrire e vestire lo schiavo e a curarlo in caso di malattia.
Il padrone poteva decidere di fare anche altre concessioni allo schiavo: per esempio poteva permettergli, nel caso in cui fosse sposato, di dormire insieme a sua moglie, per alcune notti alla settimana, fuori dalla casa padronale.
Se lo schiavo non avesse rispettato ognuna delle condizioni imposte dal padrone l'atto di taglia sarebbe stato da considerarsi nullo e lui o lei sarebbe ritornato in stato di completa schiavitù come prima della firma dell'accordo.
I contratti di taglia, talvolta, prevedevano dei garanti. Per assicurarsi che lo schiavo attallato non fuggisse, che rispettasse le clausole e che pagasse il denaro pattuito, il padrone richiedeva che intervenissero uno o più schiavi o liberti con funzione di fideiussori. Questi, generalmente, si impegnavano a risarcire al padrone la cifra della taglia nel caso in cui lo schiavo fosse fuggito. Poteva capitare che il padrone pretendesse una tale sicurezza per cui nell'atto si dovesse specificasse che, se durante il periodo della taglia uno dei garanti fosse stato liberato, avrebbe dovuto provvedere a fornire un altro garante in sua vece così che la sua fideiussione non rimanesse mai scoperta.
Il lavoro dei garanti, talvolta, era così efficace che, anche nel caso di uno schiavo recidivo della fuga, riusciva a convincere il padrone a non annullare la taglia e perfino a togliere la catena dalla caviglia del suo captivo.
Non sono rari i casi in cui il captivo sottoposto a taglia tentava una trattativa con il padrone nella speranza di essere liberato prima del tempo. La trattativa poteva avvenire facendo leva sul buon cuore del padrone oppure offrendogli qualcosa in cambio: generalmente più denaro di quello previsto inizialmente. Non di rado il padrone accettava la "pietosa richiesta", condonando e abbuonando allo schiavo il restante tempo di servitù e liberandolo immediatamente.
Durante la taglia, uno schiavo era in un certo senso anche libero di stipulare accordi e contratti con terzi. Per citare solo due esempi, poteva capitare che un captivo trattasse per il riscatto della propria moglie con il padrone di quest'ultima per portarla con sé in Barbaria una volta concluso il periodo della propria taglia; oppure che commissionasse a una terza persona - generalmente un nobile, un mercante o una persona facoltosa - l'acquisto di un proprio parente per pattuire poi con quest'ultima le condizioni per riscattarlo.
Non tutti gli atti notarili in cui ritroviamo questo tipo di affrancamento sono uguali nella struttura e nel contenuto. Se ne ritrovano di complessi e articolati, ricchi di capitoli, con obblighi e doveri ben precisati, ma ve ne sono altri più semplici e sintetici. Per esempio si possono leggere accordi in cui gli schiavi venivano liberati facendo semplice menzione del fatto che avevano già servito "bene e fedelmente per alcuni anni" (non sempre precisati) e che avevano pagato la somma concordata per il proprio riscatto.
Sembra esistere nel mondo islamico una consuetudine simile alla talla che troviamo nel Regno di Sardegna. Scrive Giovanna Fiume: “Inoltre, [lo schiavo] può guadagnare il prezzo del proprio riscatto, comprando la propria manomissione: si tratta di un accordo contrattuale (mükàtabah o mükàtebe) dal quale, una volta accordato, il padrone non può recedere e in base al quale lo schiavo paga un prezzo convenuto per un certo periodo di tempo, trascorso il quale ottiene un certificato di manomissione. Questo istituto dà allo schiavo l’importante diritto di non essere venduto, di guadagnare denaro e di usarlo per sé e di svolgere contemporaneamente al lavoro schiavile anche lavoro libero e, dunque, gli consente una certa mobilità.” Il passaggio successivo evidenzia la similitudine: “Di fatto, lo schiavo compra la sua libertà alla fine di un periodo pattuito e dopo l’espletamento di una serie di mansioni e incarichi, anch’essi contrattualmente stabiliti”.
Questi contratti sono stati studiati per la Istanbul del Cinquecento e danno conto di schiavi impiegati nel commercio, nelle manifatture tessili, nei lavori agricoli, nell’artigianato. In queste attività guadagnano la somma dovuta al padrone per la loro manomissione, oltre che denaro per sé.
La documentazione presentata in questa sezione del portale comprende atti di affrancamento per talla e altri contratti stipulati durante un periodo di talla, redatti a Cagliari tra il 1601 e il 1632 conservati nell'Archivio di Stato di Cagliari.
Per approfondire:
Salvatore Loi, Prigionieri per la fede: razzie tra musulmani e cristiani (Sardegna secoli XVI-XVIII), S@l Edizioni, Capoterra, 2016.
Giovanna Fiume, Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna, Mondadori, Milano, 2009.
Yvonne J. Seng, Fugitives and factotums: slaves in Early Sixteenth-Century Istanbul, in «Journal of the Economic and Social History of the Orient», Vol. 39, No. 2 (1996), Brill, pp. 136-169.